Quando, in una mite sera dicembrina, decidi di cedere al richiamo che da un po’ di tempo “La stranezza” sta esercitando sulla tua curiosità, già durante il cammino che ti sta conducendo in sala, a vedere un’opera che ruota attorno ad una delle figure letterarie più studiate, discusse e universalmente conosciute quale Pirandello, un’atmosfera di sorpresa sembra comunque avvolgere i tuoi passi. «È da circa un mese e mezzo che risulta ininterrottamente in programmazione». Le chiacchiere disinteressate tra amici, che si chiedono quanto questo dato possa essere indicativo sull’effettivo valore del film di Roberto Andò, si tramutano ben presto in una considerazione interessante: in un momento così complicato per le sale cinematografiche, afflitte da un’affluenza che non ha registrato il balzo in avanti che ci si attendeva allo scadere delle restrizione dovute al Covid, il verificarsi di una simile condizione meriterebbe già un’attenzione e uno studio del tutto particolari. Sarà per la mediaticità e per la bravura degli interpreti, sarà per la trafila di scolaresche che più o meno volentieri si alternano davanti al grande schermo con uno sguardo che oscilla tra spaesamento e sana voglia di scoperta: questo film una stranezza l’ha già realizzata davvero.

Poi, quando il vociare del pubblico e il cigolare dei seggiolini lascia spazio alla proiezione e al dipanarsi degli eventi, un sottile senso di soddisfazione sussurra alle tue orecchie, trascinandoti al contempo in un turbine di ammalianti e buffi intrighi in cui perdersi può risultare facile, ma persino piacevole. Perché il segreto de “La stranezza” è raccontare Pirandello senza parlarne apertamente. Senza spiegoni, direbbe qualcuno. Il protagonista non è il genio girgentino impersonato dall’ottimo Servillo, ma il susseguirsi delle parole, dei fatti, dei gesti. È la surrealtà di due teatranti amatoriali e della loro sgangherata compagnia, l’intersezione impercettibile dei piani di realtà e finzione, il sovvertimento dell’ordine naturale delle cose che talvolta inquieta e altre volte diverte. È, sul triplo palcoscenico dello schermo, del set e dei teatri fittizi in cui agiscono i personaggi, un’intera visione della realtà a prendere le redini dell’intera storia. L’anima di Pirandello è finemente parcellizzata in ogni scena, nelle occhiate fugaci con cui lo stesso assiste involontariamente allo svelarsi dei paradossi, all’affannarsi mediocre di un paese e di una comunità così grotteschi da suscitare persino pietà, nelle circostanze di ilarità che, man mano, svelano la loro seriosità umoristica. La grandezza dell’autore quasi aleggia, pur senza occupare stabilmente la scena. È il suo universo, l’insensatezza del dolore, la scomodità di ciò che è autentico in un mondo che non lo è, la vera essenza drammatica della comicità, a parlare per lui. Un trambusto di umili figuranti che finiscono per interpretare delle maschere di sé stessi, che appaiono straordinari e veri quando solo quando credono di fingere, si anima intorno a lui quasi come se fosse fuggito dalla sua stessa mente.

Non si può, d’altro canto, rendere giustizia a Pirandello scadendo nel compromesso. Illudendosi di semplificarlo, di renderlo forzatamente commestibile. La complessità, la criptica arte di librarsi acrobaticamente tra il detto e il non detto, tra la vetta del sogno e il baratro ombroso della materialità, è, anzi, la chiave di volta per accedervi. Per dare un senso e una spinta alla nostra personale ricerca. Pirandello è memoria di futuro, perché predica l’ignoto. E l’ignoto, a sua volta, è un bivio che rigetta gli ignavi e costringe a prendere posizione: da un lato, infatti, irretisce i pavidi, li ricaccia nella loro zona di confort, nel loro attendismo passivo; dall’altro, è terreno di caccia per chi va in cerca di libertà. Esisterebbe forse il concetto di esplorazione se tutto fosse già assodato e noto? Se tutto si limitasse ad essere come appare? E sarebbe forse ugualmente affascinante, quel sicilianaccio che non temeva i fischi di un pubblico ancora impreparato alla sua dirompenza, se non ci prendesse per mano nel sondare temi scomodi come l’indifferenza, la pazzia, la claustrofobia esistenziale, la morte?

Il film si conclude. E quella che appariva solo come una suggestione, assume il volto di una convinzione. Anche la complessità può essere sinonimo di seguito e di successo. Non attraverso i frangenti in cui può risultare più o meno lontanamente comprensibile. Ma attraverso quelli che ci lasciano interdetti. È da questi che il vero sapere, quello che riguarda noi stessi, può trarre linfa. Certo, qualcuno metterà sul piatto della bilancia il seguito di nomi popolari come Ficarra e Picone: ma, anche se fosse quello il motivo dei buoni risultati de “La stranezza”, non sarebbe forse un titolo di merito aver veicolato temi apparentemente lontani dalla quotidianità grazie ad una patina di familiarità? Per una volta, probabilmente, più che piangerci addosso, più che ragionare per luoghi comuni, dovremmo solo essere contenti. Contenti che ci sia ancora spazio per il desiderio di non appiattirsi. Che i record al botteghino, per una volta, li faccia un film che invita a dubitare sempre. A guardare il mondo con lenti capovolte. Contenti che, per una volta, la Sicilia al cinema non sia quella degli stereotipi ma la stessa che da secoli dà, in letteratura, lezioni al mondo.

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