Alla storia, talvolta, manca proprio il senso della misura. Sa condurti, così repentinamente da confonderti, negli spazi siderali e vertiginosi del successo e poi, con la medesima velocità, sa gettarti nelle poco liete tenebre dell’oblio. È la sorte toccata a tanti nomi illustri dell’arte e della cultura: celebrati protagonisti di un passato non troppo lontano eppure assolutamente ignorati dai contemporanei. Romualdo Romano, fine romanziere nato a Palermo nel 1911, rientra a pieno titolo in questa categoria di diseredati da rivalutare. Non soltanto per la valenza prettamente letteraria dei suoi scritti (intrisi di una malinconia e di un’arguzia che ricordano certe pagine brancatiane), ma, anche e soprattutto, per la risonanza del caso mediatico che, a metà secolo, gli crebbe attorno. E che gli sarebbero valse, in mezzo a tanti pregevoli attestati di stima, le attenzioni di un gigante come Ernest Hemingway.

Il Premio Hemingway del 1949 fu assegnato da una giuria composta da Montale, Vittorini, Buzzati, Pivano. Grazie a loro Romano ebbe la sua consacrazione con il romanzo Scirocco

L’inatteso incontro tra i due avvenne nel 1949. Fino a quel momento, Romano si era dato da fare destreggiandosi tra versi e prosa, collaborando con riviste e periodici come Epoca ed esercitando la professione di insegnante. Mancava, tuttavia, l’occasione giusta. Che si presentò, a sua insaputa, grazie alle suggestioni di un altro incontro. A Cortina, infatti, Hemingway, conversando con l’amico Alberto Mondadori, aveva deciso di istituire un premio che avrebbe portato il suo nome. Il vincitore, selezionato accuratamente tra i giovani scrittori più interessanti del panorama italiano, avrebbe ricevuto la generosa somma di 100mila lire (parte dei guadagni che l’inglese registrava con i diritti d’autore) e avrebbe visto la propria opera pubblicata nell’iconica collana Medusa. Il concorso, originariamente pensato per una durata quinquennale, si avvalse di una giuria di straordinario calibro, il cui reclutamento venne operato in prima persona dallo stesso Hemingway, che naturalmente ne faceva parte. Fu così che, contemporaneamente, si trovarono a confrontarsi figure come Dino Buzzati, il grande critico Giacomo Debenedetti, Eugenio Montale, Fernanda Pivano (una delle più grandi traduttrici della letteratura anglo-americana) ed Elio Vittorini. Fu grazie a loro che avvenne la meritata consacrazione del nostro conterraneo, presentatosi alla competizione con il romanzo Scirocco. «L’opera del Romano – recita la motivazione allegata al premio – ottiene risultati di interesse narrativo e di colore. Rappresenta con affetto contrariato una Sicilia torbida, sospesa in un angolo remoto e veramente sciroccale. La rappresentazione è realistica e senza indulgenza». Una trama singolare, in effetti, caratterizza il romanzo di Romano, che sull’onda del clamore e della notorietà venne non soltanto pubblicato l’anno successivo, nel 1950, ma persino ristampato poco dopo, nel 1957. Un romanzo tipicamente siciliano, ambientato tra le stradine claustrofobiche del paese di Castagneto, sui monti Peloritani, in cui il tempo appare sospeso, stritolato nell’avvilente morsa della monotonia. In cui i personaggi, rassegnati ad un male di vivere che ripercorre le riflessioni di Sartre e che evidentemente ricordava ad Hemingway i suoi anni parigini della Lost Generation, vengono improvvisamente destati da un vasto incendio e da un misterioso omicidio. Il tutto sotto il segno metaforico, appunto, dello scirocco, il vento che fiacca le energie e al tempo stesso sferza i volti e tempra la resistenza. Un motivo che ben si attaglia a quella natura così ambivalente che contraddistingue i siciliani: un giorno sottomessi alle raffiche più impetuose; un giorno capaci di librarsi su quei soffi, verso mete inesplorate. Romano fu il primo ed unico siciliano a ricevere il Premio Hemingway. Scirocco, successivamente alla doppia pubblicazione italiana, venne perfino tradotto in svariate lingue. Inspiegabilmente, però, quell’onorificenza tanto ambita fu anche l’inizio della fine.

In quell’immagine tanto familiare di una Sicilia contorta su sé stessa, sempre in lotta con le proprie fragilità, si stagliano le pagine di tanti autori isolani contemporanei

Di Romano, infatti, ben presto si persero le tracce. Nessuna antologia ne incluse – e continua tutt’ora a non farlo – accenni biografici o brani; nessuna casa editrice, fino agli albori degli anni 2000, si è occupata della riproposizione di quell’opera tanto significativa; altrettanto rari e sparuti sono stati gli interventi critici a lui dedicati. Eppure, in quell’immagine tanto familiare di una Sicilia contorta su sé stessa, sempre in lotta con le proprie fragilità, sempre in cerca di un cambiamento che abbatta le barriere dell’indifferenza, sinistramente abituata a confrontarsi con l’idea di solitudine, si stagliano le pagine di tanti autori isolani contemporanei. Che forse, inconsciamente, accanto a quelli di sempre, sono cresciuti all’ombra di un maestro sconosciuto.

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