La strada per il successo è lastricata di fallimenti. Una legge ineludibile, specie per chi ha scelto il mestiere di scrittore e di esporsi agli umori continuamente mutevoli, e talvolta capricciosi, del grande pubblico e dei critici. Nemmeno i grandissimi della letteratura sono risultati immuni a questa dinamica: come non ricordare, ad esempio, gli esordi fallimentari di Italo Svevo prima del successo de La Coscienza di Zeno? E che dire dell’Ulisse di James Joyce, tormentato dalla censura e ritenuto immorale per quasi un quindicennio prima di assurgere al rango di capolavoro? Anche il nostro Giovanni Verga, in quel di Milano, è stato costretto ad ingoiare l’amaro boccone della sconfitta. Non, clamorosamente, in quanto autore di belle speranze che si affaccia al panorama letterario, ma addirittura da affermato e riconosciuto capostipite del Verismo italiano (I Malavoglia era stato pubblicato nel 1881). A beffarsi del nostro conterraneo, d’altro canto non furono soltanto le penne sempre oltremodo taglienti degli specialisti, ma persino il pubblico accorso al Teatro Manzoni ad assistere alla messa in scena da lui curata. Era il 1885: l’anno di debutto di In portineria.

Per allietare l’esigente platea meneghina, Verga aveva deciso di trasporre una sua novella dal titolo Il canarino del n. 15. La storia, incentrata sulla giovane, bella e fragile Malia, figlia dei portieri di un elegante palazzo borghese, segue le vicende sentimentali della ragazza, costretta su una sedia a rotelle e malinconicamente innamorata di un giovane che la rifiuta per via della sua infermità prima di instaurare una relazione con sua sorella. A causa di tale struggimento, le condizioni di Malia peggiorano rapidamente al punto da condurla alla morte. Tutti i familiari ne ignorano la drammatica sorte fino a quando, osservando la finestra della portineria presso la quale la giovane era solita condurre le sue giornate osservando i passanti, la sua assenza diventa manifesta. Un’opera sicuramente sui generis, lontana dalle ambientazioni e dai ritratti siciliani che hanno reso celebre Verga. Un’opera intima ed introversa, a tratti psicologica, dal sapore decisamente novecentesco. Un’opera, insomma, di non immediata lettura, la quale, oltretutto, rispecchiava impietosamente le ipocrisie, i parossismi e le meschinità di quella classe borghese che tanto si vantava dell’illusorio progresso portato dalla Belle Époque. La stessa classe borghese che accolse con fastidio tale riflesso sul palco. Fu così che Verga venne pesantemente fischiato: In Portineria fu confinato nel dimenticatoio e lo scrittore, sdegnato, decise di tornare in Sicilia piuttosto che, come disse lui stesso, fare da «cortigiano della folla». Attraverso alcune lettere spedite all’amico di sempre Luigi Capuana, è possibile ricostruire quei frangenti concitati e disillusi. «Caro Luigi, – scrive Verga il 25 maggio 1885, una decina di giorni dopo il disastro a teatro – come ti feci sapere per cartolina la mia commedia fece un gran fiascone al Manzoni prima che avessi avuto il tempo di ricopiarla e mandartela perché tu l’avessi letta. Ho ritirato il copione; non voglio che si trascini qui e là in altri tentativi più o meno falliti prima che io l’abbia riletta a mente fredda fra qualche mese per vedere se è proprio da buttare nel fuoco, oppure se devo tentare un altro esperimento». Poco dopo, il 5 giugno, lo scrittore confessa i suoi propositi fraintesi: «In portineria è venuta così perché così l’ho voluta. Ho voluto che il dramma fosse intimo rigorosamente, tutto a sfumature d’interpretazione, come succede realmente nella vita; ed era in questo senso, un altro passo nella ricerca del vero. Il quadro (il riferimento è a Cavalleria Rusticana e alle storie con sfondo agreste, ndr) cambiava, ma l’intendimento era il medesimo proporre di ritrarre un’altra faccia della vita popolare: fare per la gente minuta della Città quello che avevo fatto per i contadini siciliani».

Nel 1889 Verga avrebbe poi dato alle stampe Mastro-don Gesualdo, che incontrò un favore decisamente superiore. Forse, chissà, senza la traumatica esperienza milanese, non si sarebbe mai verificato il suo ritorno a casa. E, forse, il romanzo che oggi tanto apprezziamo avrebbe tutt’altra forma. Vezzi del destino. Tappe di una parabola che, per essere ascendente, ogni tanto ha bisogno di guardare in basso. L’applauso, a volte, è figlio di un fischio.

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