Scrivere è un atto sovversivo. Un atto di coraggio, di ribellione, di affermazione. Questo, almeno, è ciò che siamo abituati a credere. A prendere per vero nei momenti in cui serve aggrapparsi ad appigli duraturi. Ma se non fosse così? Se esistesse un’altra possibile verità, un risvolto più torbido e degradante? Se la scrittura, in fondo, con le sue splendide volute di inchiostro, non fosse altro che una pavida manifestazione di viltà? Scopriremmo, forse, che essa può anche essere un rifugio. O, più precisamente, una cella di isolamento inaccessibile agli altri. Il muro separatore tra l’io e il noi, tra il governabile mondo delle lettere e l’intrattabile mondo di ciò che effettivamente accade. La scrittura, insomma, è anche una tentazione. Un istinto sfrenato all’autoreferenzialità, un tuffo a capofitto nella nebbia spesso sconfinata della solitudine. La giustificazione al proprio mal di vivere. Alla propria paura di vivere. Sono queste alcune delle riflessioni, a metà tra la persistenza del razionalismo e la tensione verso il metafisico, che hanno attraversato in maniera costante la produzione letteraria di Gesualdo Bufalino. Fino, letteralmente, agli ultimi istanti di una vita votata al sapere. Alla costruzione di quel romanzo dai mille volti, metanarrativo e teatrale – e premonitore se ne esiste uno – che fu anche l’ultimo nato dalla sua sublime penna: vale a dire Tommaso e il fotografo cieco, pubblicato da Bompiani nel 1996. Bufalino non fece in tempo ad assistervi: morì a causa di un incidente stradale. Proprio come Tir, il fotografo del titolo, dalla cui morte scaturisce l’intero intreccio narrativo e la scelta peculiare di Tommaso, giornalista con, significativamente, ambizioni da scrittore.

Presto, infatti, il protagonista della vicenda decide di trasformarsi in un esule. Esule dell’anima, quantomeno. In un moderno e meno supponente Robinson Crusoe, prigioniero di un’isola deserta tutta interiore, senza neppure la bislacca compagnia di un Venerdì qualunque. Tommaso si confina da sé nella penombra di uno squallido seminterrato romano. Abbandona il lavoro, scarica gli amici, taglia i ponti persino con la famiglia. È la sua risposta ai drammi della realtà. Alle sofferenze prive di senso, al tempo inafferrabile che si srotola sugli uomini intenti ad affannarsi senza meta. E mentre le sue giornate claustrofobiche rimandano alle innumerevoli citazioni che Bufalino mai lesinava – dal Realismo magico di Kafka al sottosuolo di Dostoevskij – si fa largo tra le sue inquietudini anche la nostalgia di Dio. Il senso di smarrimento nei confronti del Suo operato, ma anche un appello alla Sua manifestazione. «Io volevo soltanto – afferma Tommaso – architettare un labirinto cartaceo… con una contemplazione della morte, ma strabica. Per ridere, sai, per star meglio». Solo che il labirinto porta con sé una fregatura di non poco conto: puoi perderti lungo le sue strettoie. Ti fa credere di aver imboccato il giusto sentiero, di aver ritrovato la strada maestra. Per poi condurti, invece, esattamente da dove eri partito. O alla meta che speravi di evitare deviando la tua marcia. Tommaso non fa eccezione: il mondo che aveva pervicacemente osteggiato ritorna nei suoi incubi. Le sue peripezie, le sue cronache minuziose, il suo fascino perverso tornano progressivamente ad affollare la mente della creatura bufaliniana in un eterno ritorno che pare confutare ogni convinzione. La prigione della memoria in cui questo doppio ambulante – questo specchio narrativo dell’autore stesso – si era rinchiuso diviene costellata di fessure. Il mondo invade le quattro mura dello scantinato. La sua tempra da giornalista prende il sopravvento. Inizia così un’indagine sulla morte dell’amico Tir, forse non così accidentale come sembrava: la soluzione sembra lì, a portata di mano, un rullino pare essere la chiave di volta. Ma quando tutto sta per chiarirsi, anche Tommaso rimane vittima dell’imponderabile: il condominio crolla. Di lui rimane solo ciò che ha scritto. Una realtà oltre le macerie. O forse no. Perché, con uno di quei twist che tanto piacevano a Bufalino, la pagina successiva del romanzo è a dir poco spiazzante. Tommaso e Tir sono ancora vivi. La storia in questione non era il romanzo di Bufalino, ma quello di Tommaso. I due discutono, vanno al cinema. All’uscita Tir viene di nuovo investito. Il romanzo si conclude.

È un epilogo che quasi riporta alla mente certe pagine filmiche di stampo fantascientifico quali Inception. E che ci pone dinanzi ad un quesito esistenziale di non poco conto: chi ha la supremazia tra il reale e il fittizio? Può l’eterno gioco dello scrittore plasmare a tal punto il mondo che racconta? La scrittura è una prigione nella prigione o la libertà di segarne le sbarre?

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