Una buona dose di empatia è necessaria per vivere meglio tutti assieme e anche per essere più felici. A dirlo non è più soltanto il buon senso ma anche le più moderne ricerche sul funzionamento del cervello

«Ti sei mai messo nei miei panni?» Quante volte abbiamo pronunciato questa frase sentendoci incompresi? Quello che crediamo in questi casi è che la persona che abbiamo di fronte non sappia come veramente ci sentiamo e che se lo sapesse agirebbe diversamente nei nostri confronti. In fondo, ammettiamolo, pretendiamo tutti che gli altri si mettano nei nostri panni ma non per questo lasciamo i nostri per provare a capire loro. Questa insofferenza a stare dall’altra parte non è immotivata: ognuno di noi è un essere irripetibile, altrimenti, che senso avrebbe essere così tanti nel mondo? In fondo, come dice il filosofo spagnolo Ortega Y Gasset, dove sta una pupilla non ce ne sta un’altra e per fortuna non posso sentire il mal di denti dell’altro. Ma ciò significa che dobbiamo ignorarci? Che non sia così ce lo spiega Patricia Churchland, filosofa canadese classe 1943 che, in Neurobiologia della morale (Raffaello Cortina, 2012), basandosi sui dati di neuroscienze, psicologia sperimentale e biologia evoluzionistica, ci fornisce una spiegazione di ciò che rende gli uomini e gli altri animali degli esseri sociali, ovvero l’empatia.

SCRITTO NEL CERVELLO. Dal greco “sentire dentro”, l’empatia indica la capacità di comprendere l’altro a partire dal riconoscimento delle sue emozioni. Quella che è ritenuta una virtù da filantropi, appartiene in realtà pressoché a tutti. L’uomo, volente o no, per sopravvivere e per stare bene deve sforzarsi di migrare da se stesso: è un animale sociale, nel senso che è a nativitate aperto all’altro. Che sia così ce lo confermano gli studi sul cervello. «I nostri cervelli sono organizzati in modo da valutare il proprio benessere così come quello di amici e di parenti»: servono a questo scopo ormoni come l’ossitocina, l’ampia corteccia prefrontale e alcune regioni come l’insula e la corteccia cingolata anteriore. A questo sistema complesso si deve, secondo l’acuta analisi dell’autrice, la capacità di attribuire stati mentali a sé e agli altri che è alla base della socialità dei mammiferi: quella che, insomma, chiamiamo empatia, il provare a stare dalla parte dell’altro.

UN’UTILE RISORSA. Come mai le dà tanta importanza nei suoi studi? A che ci serve essere empatici? «Se possiamo imparare a predire il comportamento degli altri, possiamo anticipare ed evitare problemi o trarre vantaggio da opportunità attese». I miei zii Mattia e Luana sono una coppia irascibile, soprattutto quando si parla di politica. Quando li invito a pranzo a casa mia eviterò il discorso sul reddito di cittadinanza perché non voglio incupire e mettere a disagio i commensali, come neanche i miei cugini. La mia amica Lucia si è appena lasciata: eviterò di farle vedere l’album di foto che mi ha appena regalato il mio fidanzato, a meno che non voglia allontanarla infliggendole crisi diabetiche. Mia mamma è debole di salute: se ho un piccolo incidente con l’auto eviterò di addossarle una preoccupazione se voglio averla con me più a lungo possibile. Noemi deve andare a un colloquio di lavoro: si presenterà pulita e ordinata e, notando i toni seri dei responsabili dell’ambita azienda eviterà le sue solite battute da burlona. Forse che comportandoci in questo modo la nostra personalità ne perde? Niente affatto. Nell’entrare in sintonia con gli altri abbiamo solo da guadagnare in termini di benessere e di sopravvivenza. Attribuire stati mentali agli altri «è uno strumento potente per navigare nel mio mondo sociale». Essere empatici permette di predire quello che gli altri faranno: «l’altro condividerà, morderà, colpirà, si accoppierà, o cosa?». In fondo gli errori stessi non li spieghiamo come dovuti a false percezioni o a una mancanza d’attenzione?

TUTTO IN EQUILIBRIO. Quindi secondo la filosofa «è altamente vantaggioso interpretare il comportamento degli altri come espressione dei loro stati mentali interni». Tuttavia non posso aspettarmi che siano solo gli altri a capirmi con la loro empatia. Certo, costa fatica, ma il nostro cervello ci ringrazierà se avremmo creato intorno a noi un ambiente confortevole attraverso l’empatia, rilasciandoci ormoni che generano sensazioni piacevoli. L’empatia, come il dolore e la paura, è una risposta omeostatica che ci orienta nella vita e la semplifica. Diamole ascolto. E alleniamola con lo strumento più potente, la domanda, problematizzando la realtà che ci circonda, chiedendoci e chiedendo perché, aprendoci all’ascolto delle risposte. Abbiamo una testa grande, ma relativamente piccola considerando che in 1mm³ di tessuto corticale si trovano circa 100.000 neuroni. Non sprechiamoli tutti.

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