«La fotografia è un linguaggio per porre delle domande sulla realtà, è una sorta di interrogazione continua su quello che si deve vedere e quello che non si deve vedere. La fotografia, come forma di conoscenza, ci aiuta a scorgere sempre nella realtà una zona di mistero, una zona insondabile che secondo me determina anche l’interesse dell’immagine fotografica». Enigmatica, ma tanto profonda la ricerca sullo scrivere con la Luce di Luigi Ghirri, riconosciuto a livello internazionale come uno dei maestri della fotografia contemporanea.

Originario di Scandiano, provincia di Reggio Emilia, nel 1962, a diciannove anni, si diploma per iniziare l’attività di Geometra, che per alcuni anni pratica. Le prima fotografie risalgono agli anni Settanta, nel tempo libero che le vacanze o i weekend gli concedono. Il suo stile assume ben presto una cifra caratteristica: lo scatto a colori perché, diceva, «il mondo reale non è in bianco e nero». Non a caso, il suo uso del colore non ha eguali in Italia.

Maturata la scelta di abbandonare la carriera professionale come geometra, Luigi Ghirri si dedica esclusivamente alla fotografia: una scelta che gli avrebbe consentito di girare il mondo e di acquisire quell’esperienza che lo avrebbe consacrato come uno dei pilastri del panorama internazionale.

Ghirri era un grande curioso, fotografava tutto ciò che catturava la sua attenzione, soprattutto quello che sembrava banale e scontato come porte, finestre, serrande e muri. Enorme il suo archivio (150.000 scatti), ordinato in oltre trenta raccolte, con una grande varietà di soggetti. Era un fotografo incostante, amava iniziare nuovi progetti destinati a non terminare mai, opere lasciate volutamente incomplete: la fotografia come un progetto dinamico, una ricerca destinata a non concludersi mai.

Tra il gennaio 1989 e il giugno 1990, Ghirri tenne anche alcune lezioni di fotografia presso l’Università del Progetto di Reggio Emilia. Occasioni preziose, che passarono alla storia come appuntamenti imperdibili, attraverso i quali non soltanto formava I propri alunni, ma ripercorreva con sagacia la storia della fotografia mondiale. Una vera e propria palestra per affrontare a realtà con consapevolezza o, come amava dire lui stesso, per «per pulirsi un po’ lo sguardo». Un’intera generazione di fotografi non esisterebbe senza la sua opera racchiusa in un libro che ancora oggi non cessa di stupire e di raccogliere schiere di lettori, esperti di fotografia o semplici appassionati.

Ciò che davvero gli stave a cuore al momento dello scatto è il margine, ciò che dalla foto rimane fuori. Era convinto, infatti, che fotografare non equivalesse a realizzare una semplice copia del mondo, ma ad immaginare ciò che non era visible, ad aprire continuamente nuove finestre su di esso. Nulla sfuggiva alla sua attenzione perché tutto risultava degno di uno sguardo: la quotidianità, ai suoi occhi, era banale solo in apparenza.

Quando, tre anni fa, il fotografo Giovanni Chiaramonte venne a fare una lezione all’università di Catania a proposito del rapporto profondo che esiste tra sguardo e fotografia, fece molti riferimenti a come, di fatto, il suo grande amico Ghirri e la sua fotografia hanno cambiato il modo di guardare il mondo. Personalmente, dopo una giovinezza passata nella camera oscura con mio padre fotografo, continuo a pensare alla seguente affermazione di Ghirri: «Fotografare era un atto dove si rinnovava lo stupore per tutto, dove la meraviglia si rinnova non solo quando scatti la foto, cioè quando scegli un pezzo della realtà, ma anche quando lavori l’immagine in camera oscura e poi nel miracolo dell’immagine finale». Così, mi ha costretto a riconsiderare tutta l’esperienza personale di fotografo. 

L’immagine scelta è l’ultima fotografia scattata da Luigi Ghirri nel febbraio del 1992 a Roncocesi, vicino Reggio Emilia, alcuni giorni prima di morire di infarto a soli 49 anni. C’è bisogno di tempo per sintonizzarsi con il suo profondo significato. Il paesaggio è morto. La foto è spaccata in due. La pianura padana squarciata da un canale che si fa strada nella nebbia, un mondo infinito nascosto, un limite senza segni, una misura impercettibile che si perde nella vaghezza dei confini abbaglianti della luce mattutina. Uno scatto dove la nebbia dissolve i margini e rende i confini dello spazio indefinito. La forza della luce invernale che pervade la terra arata, i riflessi gelidi dell’acqua e il verde smorto dell’erba che fatica a crescere, hanno qualcosa di inquietante. Come in tante sue foto Ghirri esalta un non-colore per indicare un non-luogo, un mondo sospeso, una sorta di deserto dello sguardo che ha frantumato anche la campagna e si perde indicando la strada verso l’indefinito mistero.

Ghirri scrive che fotografare i luoghi ci rende consapevoli di trovarci sempre al confine tra conosciuto e ignoto, «tra memorie visive antiche e familiari e qualcosa di nuovo e spaesante». Fotografare significa essere sorpresi da qualsiasi cosa, «trovare quell’emozione che ti fa immaginare la vastità dello spazio, anche nelle cose più quotidiane».  I suoi scatti insegnano che il mondo prende forma perché qualcuno lo osserva, quando qualcuno desidera contemplare e non invaderlo.

Le campagne rappresentavano per lui uno spazio particolare, sospeso tra le dimensioni del tempo. Erano l’ultimo luogo dove si potevano avere delle visioni, dove si poteva immaginare l’immensità dello spazio. Negli ultimi tempi Ghirri pensava al suo lavoro come qualcosa di connotato verso l’invisibilità, come la poesia o la musica; diceva di voler fotografare «il respiro della terra». E per questo le sie ultime foto si presentano al limite del possibile: forme che si intravedono appena nella nebbia, vecchie case che sembrano fantasmi.

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