«Quando scatto una foto vorrei essere dentro la pallottola. Con i miei scatti sconvolgere il mondo come loro lo hanno sconvolto con le loro bombe». Il fotoreporter polacco Krzysztof Miller è, forse, tra i fotogiornalisti di guerra quello che nel suo lavoro difficile è andato più vicino alle persone cercando di catturare i loro pensieri e le loro sensazioni fino alla immedesimazione completa. Alcuni tra i suoi scatti più significativi sono stati recentemente esposti nella mostra “Le fotografie che non hanno cambiato il mondo” a cura di Tiziana Bonomo presso l’IMP Festival 2021.

Krzysztof ha vissuto e studiato a Varsavia. Dal 1989 ha cominciato a collaborare stabilmente con l’agenzia “Gazeta Wyborcza”. Ha documentato regolarmente i conflitti armati in giro per il mondo dal 1990 fino al 2015, nei Balcani, in Cecenia, in Afghanistan, in Sudafrica e in Africa, accostandosi al dramma bellico con quello spirito di compartecipazione che contraddistingue il suo stile fotogiornalistico.

Tanti fotografi vivono il loro lavoro dentro un grande coinvolgimento emotivo, ma Miller è andato molto oltre. Le sue sono immagini con scene forti, a tratti sconvolgenti, esteticamente intense e con un chiaro intento di denuncia. Una fotografia dallo stile documentario, i soggetti ripresi così come sono anche in momenti di forte fragilità, svuotati da qualsiasi rappresentazione concettuale. Nei suoi scatti Miller preserva la dignità dei suoi soggetti, preoccupandosi di ritrarre i dettagli necessari a chiarire la loro situazione: il silenzio prima di tutto, la solitudine, l’esasperazione, il dolore. Infine, documenta la storia stessa dell’umanità nelle tragedie del mondo.

Nel 2016 Krzysztof Miller prende la tragica decisione di togliersi la vita dopo una lunga lotta durata anni contro il disturbo da stress post-traumatico. Un prezzo altissimo per chi, come il fotografo, ha scelto di dedicarsi al racconto delle sofferenze altrui con totale immedesimazione.

L’inviato del giornale “La Stampa” Domenico Quirico ha scritto che: «Krzysztof è stato ucciso da un veleno che si chiama dolore. Non il suo, a quello ti abitui. Quello degli altri, di quelli che fotografava. Degli Uomini. Non puoi sfuggire al tuo destino, se hai scelto di raccontare lo scandalo imperdonabile del dolore: è segnato, viaggia su binari inflessibili. Attraverso la scrittura o l’immagine non puoi fare il callo alla vita. Miller si è ucciso a Varsavia il 9 settembre del 2016. Aveva la macchina fotografica al collo».

Era un professionista che con i suoi scatti voleva cambiare il mondo. Ha tentato di testimoniare il tormento e la lotta dell’uomo fino alla violenza e all’usura del troppo dolore. Le sue fotografie presentate da alcuni anni in mostre fotografiche anche in Italia, mai pubblicate da Krzysztof, forniscono una immagine vorticosa e bruciante della realtà di tanti conflitti.

La foto presentata è stata scattata in Congo a Bogoro, un villaggio vicino al confine con l’Uganda, diventato nel febbraio 2013 teatro di indicibili violenze causate dalle divisioni etniche che laceravano il paese. L’aggressione ad opera di uomini armati di machete, lance, frecce, mortai e armi da fuoco e bambini soldato causò la morte di almeno 200 civili. La forza dell’immagine sta tutta negli occhi dei bambini. Occhi pieni di rabbia e di odio che ti feriscono dentro. Ti mettono con le spalle al muro. Bambini con gli infradito che hanno già visto e vissuto troppo, uno addirittura con le stampelle. Cosa hanno vissuto e sofferto questi bambini per guardare così? Quanto male hanno subito dagli adulti? Lo scatto ammutolisce e senza che te ne accorgi ti fa gridare: Perché?

Un giorno Krzysztof ha dichiarato che si rammaricava del fatto che molte delle sue foto non sarebbero mai state pubblicate. «So che restano nel grande archivio dell’agenzia Gazeta – ha scritto – ma con il passare del tempo si rimpiccioliscono gli eventi che ho registrato, perdono di significato e ci sono sempre meno motivi per tornarci e farli ricordare. Il mio cuore soffre per il fatto di non poterle fare vedere. Me ne frego completamente se il cielo è più chiaro o più scuro, se il filtro è quello giusto oppure se il bianco è più bianco o meno bianco a dire la verità conta il tema soprattutto nella fotografia di reportage dove conta esattamente quello che succede davanti all’obiettivo».

È la prima volta che mi imbatto nel suicidio di un fotoreporter. Approfondire il suo lavoro e avvicinarmi, in qualche modo, alla sua sensibilità, mi è sembrato doveroso. Il suo suicidio non intacca la forza del suo messaggio al mondo, non so se le sue foto potranno cambiarlo. Ma una cosa è certa. La sua particolare storia e il suo modo di vedere oltre il guardare così da vicino il dramma della guerra, fino a insinuarsi nella mente degli uomini, conferma quello che lo stesso Domenico Quirico ha ricordato durante l’ultima edizione del workshop di giornalismo organizzato da questa testata: «Le nostre parole e le nostre foto, hanno una connessione con il destino di ogni uomo che incontriamo e che soffre. E per non tradirli, per entrare nel vivo di quei drammi, non esiste altra via se non quella di commuoversi. Senza questo, la loro tragedia non è niente».

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