«Il fotografo è dentro l’istante, legato al destino di coloro che stanno per entrare nell’immagine. Solo in questo modo la foto si anima e ci anima, perché l’immagine, vuol dire relazione. Tra immagine e spettatore c’è un rapporto vivo, qualcosa che appartiene ai sentimenti più veri». Da quasi cinquanta anni l’obiettivo della macchina fotografica di Tano D’Amico è puntato sugli ultimi, i senza potere, i poveri, i diseredati, le vittime delle guerre e delle sopraffazioni. E non ha nessuna intenzione di cambiare inquadratura neppure a quasi ottanta anni.

D’Amico, nasce a Filicudi, una delle isole Eolie, il 29 luglio del 1942. Si sposta a Roma nel 1967 nel clima della contestazione studentesca. Inizia una lunga collaborazione come fotografo con Lotta continua e con Potere operaio. I primi reportage sono dedicati al Sud, in Sicilia e in Sardegna. Ma numerose sono anche le tappe internazionali: si reca nell’Irlanda afflitta dalla guerra civile, e nella Grecia affetta da quella dei colonelli. Poi nella Spagna della dittatura franchista, nel Portogallo animato dalla la rivoluzione dei garofani, più volte in Palestina. Negli anni Ottanta e Novanta i suoi scatti ritraggono la Somalia, la Bosnia, il Messico, gli Stati Uniti.

D’Amico, d’altro canto, si è sempre distinto dal resto dei fotoreporter. A catturare la sua attenzione non è mai stata la cronaca in sé e per sé, quanto, piuttosto, le ragioni profonde che ne stavano alla base. Il suo è un vero apporto testimoniale e di lotta al fianco di operai, minatori, femministe. Nessuna periferia esistenziale sfugge al suo occhio: non le carceri, le caserme, i manicomi, gli zingari che cerca di raccontare attraverso immagini di gioia che superino povertà e dolore.

Nelle immagini di D’Amico la componente princiale è la bellezza: quella dei manifestanti gioiosi mentre in occasione di un corteo; quella degli operai preoccupati per il loro futuro; quella delle tante madri che affrontano la vita con estrema dignità. Osservando i suoi scatti e le didascalie annesse, non si può non sentirsi partecipi di quel racconto. Ultimamente il fotografo siciliano ha affermato: «L’atto di fotografare corrisponde ad una straordinaria capacità di assimilazione, a un potente coinvolgimento emotivo, per cui ciò che è fuori si sposta dentro, l’esteriore diventa interiore. Io vado sempre alla ricerca di belle immagini, la bella imagine è una finestra aperta sulla realtà. Purtroppo non sono molte le immagini che fanno compagnia nella vita. Devo riconoscere che spesso vedo in giro belle foto, ma che non riescono a fare compagnia, non riescono ad arricchirmi. Io guardo le immagini con gli occhi di un mendicante che ha bisogno di belle immagini per vivere». I suoi scatti cercano di restituire dignità a coloro cui la dignità è stata tolta. Grazie al suo obiettivo da 35 mm, D’Amico riesce a rappresentare ogni sfumatura di complicità, di simpatia, di partecipazione.

In molti lo hanno definito un fotografo di strada, dallo scatto rapido, pronto. Ma D’Amico, in realtà, è un uomo da macchina fotografica, da bianco e nero, da racconti di un mondo diverso, per certi versi esistente ormai solo nei ricordi simoblicamente racchiusi nel bianco e nero. Per spiegare questa sua scelta, cita il poeta Mario Luzi, che al passaggio dal bianco e nero al colore del Corriere della Sera commentò che sostenendo che «il colore disgrega la realtà». A cui il fotoreporter isolano replice: «Il bianco e nero riporta alle linee essenziali, aiuta a capirla la realtà. Basta rifarsi ai grandi pittori, il colore non è messo a caso. I grandi maestri dell’arte usano i colori come un linguaggio. Nella realtà è tutta un’altra cosa. Se per alcune foto avessi scattato la foto a colori, sarebbe cambiato tutto… Lo ripeto. L’uso casuale del colore distrae. Per me il bianco e nero è una delle grandi scoperte dell’umanità. Solo col bianco e nero riesco a realizzare la mia intenzione: aggregare la realtà».

La foto scelta è stata scattata nel 1977 a Roma durante una manifestazione studentesca. La giovane immortalata è Simonetta Frau, 22 anni, deceduta a 64 anni nel dicembre del 2019 per un brutto male.  L’immagine è diventata una vera e propria icona del movimento giovanile. Uno sguardo deciso, il volto in parte coperto da un fazzoletto, i capelli raccolti in una treccia. L’espressione profonda, di fronte ad un carabiniere. Gli occhi, che esprimono una speranza in un futuro senza steccati, sembrano parlare con l’uomo delle forze dell’ordine. Non è uno sguardo che passa inosservato, si impone, si fa fatica a staccarsi da occhi così penetranti e teneri. Emblematico il titolo che lo stesso autore ha dato alla foto “Ragazza e carabinieri”, a voler comunicare che anche solo la forza di un unico sguardo può sfidare, anche se  per un istante, un mondo che deve essere cambiato, per il bene di tutti.

Tutte le immagini di quegli anni, anche le più drammatiche, ancora oggi trasmettono speranza, anche dinanzi alla sofferenza, alla violenza. Il ritratto dei più deboli non lascia mai trasparire un giudizio, una ineluttabile rassegnazione, un’amara indignazione. Tutti i soggetti di D’Amico, risultano vivi ed eroici in virtù della loro umanità. Testamento di un’epoca, ma anche di un grande, condiviso desiderio.

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