La storia delle sue imprese politiche e civili continua a fare il giro del mondo, fra studiosi e non. Ma forse non tutti sanno che, oltre ad essere promotore della Scuola Poetica Siciliana, lo svevo fu egli stesso autore di liriche amorose. Non solo per diletto, ma anche come segnale: che la cultura è il fondamento su cui costruire un mondo migliore

I suoi natali non sono siciliani, ma il suo destino è inscindibilmente connesso a quello della nostra isola; il suo progetto politico mirava ad un pacifico ecumenismo, ma aveva un centro ben preciso e riconoscibile: la città di Palermo; la sua fama lo addita principalmente come sovrano e politico lungimirante, ma la sua personalità fu ben più poliedrica. Non solo, infatti, sotto la sua protezione si sviluppò quel fenomeno culturale di rilievo assoluto divenuto celebre grazie all’etichetta Scuola Poetica Siciliana, ma lui stesso si dilettò nel comporre versi di un certo valore. Rigorosamente a tema amoroso, marchio di fabbrica degli stessi poeti siciliani che favoriva e che traeva ispirazione dalla lirica provenzale, fiorita nel sud-est della Francia sul finire del XII secolo. La sua grandezza è testimoniata dal soprannome che gli fu affibbiato, ovvero Stupor Mundi, che lo ha ormai reso familiare ovunque. Stiamo parlando, naturalmente, di Federico II di Svevia, Re di Sicilia dal 1198 e Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1220, entrambe le cariche ricoperte fino al 1250, anno della morte. Se, come detto, il versante istituzionale della sua esistenza è stato ampiamente trattato, che dire dell’aspetto umano e culturale? Cosa ci resta di quei bagliori d’eccellenza che dopo la sua scomparsa andarono lentamente scemando?

Il nipote del Barbarossa possedeva una ferrea convinzione: che all’azione politica, pratica, diplomatica, andasse istituito, di fianco, un ampio e coerente disegno di crescita intellettuale del Regno, per non dire dello stesso Impero, espressione massima di realtà statuale concepita dall’essere umano. Tra le tante opzioni che si presentavano nel suo spettro d’azione (e che in alcuni perseguì con decisione, come ad esempio in occasione della nascita dell’Università a Napoli), uno dei fiori all’occhiello della sua Curia fu l’arte del poetare. Il cui nesso con la mansione di guida civile degli uomini non è immediatamente agguantabile, ma a ben pensarci è davvero robusto: la poesia, per Federico e i suoi sudditi/sodali, non era soltanto l’occasione per un momentaneo vagheggiamento che intrattenesse i nobili e tutti gli altri componenti che formavano il suo entourage di corte, ma una vera e propria dichiarazione di riconoscibilità verso l’esterno, un’opera di promozione del territorio che le dava vita, e delle sue peculiarità, a cominciare dalla lingua. Il simbolo tangibile di un cambio di passo, il segnale di una svolta che puntava in alto e non temeva confronti.

Nella loro ripresa del grande canto cortese, infatti, i poeti siciliani furono anche piuttosto creativi: a loro si deve l’introduzione del sonetto, a loro, che non praticavano la musica come i colleghi occitanici, si deve l’inizio di un percorso, che attraverserà Dante e arriverà fino a Leopardi, mirante a recuperare, tramite la tessitura verbale, la dolcezza e la fluidità delle note perdute. Non è un caso che il loro ruolo sia accreditato, fra tanti, proprio dall’Alighieri. E Proprio con questa volontà di estrinsecazione di una specificità che stava muovendo i suoi primi passi in Sicilia, Federico avallò due scelte rivelatesi non solo fondamentali ma anche vincenti: trattare esclusivamente temi d’amore – non è forse l’amore a dare alla poesia la sua forma più autentica? – e farlo nel cosiddetto “volgare siciliano aulico”. Che nonostante oggi, a causa dei manoscritti andati perduti, sia ricostruibile a fatica, a partire dalla toscanizzazione successiva, mantiene il suo fascino e la sua miliare importanza. Basti leggere alcuni versi dello stesso Federico, che di tanto in tanto si lasciava andare a versi siciliani: […] «In voi, madonna, amare, /e tutta mia speranza/ in vostro piacimento. / E non mi partiraggio / da voi, donna valente, /ch’io v’amo dolcemente, / e piace a voi ch’io aggia intendimento./ Valimento mi date, donna fina, / che lo mio core a voi s’inchina».

Federico II (sinistra) tratta la pace, a Gerusalemme, con il sultano al-Malik al-Kamil (destra)

Nelle battute finali del Cyrano de Bergerac di Rostand, il protagonista definisce se stesso «astronomo, poeta niente male, filosofo, musicista, cavaliere ardente». Non potrebbe forse questo insieme di definizioni adattarsi perfettamente al profilo dell’Imperatore di Svevia? Che, rispetto al suo tempo – ma anche al nostro – rappresentò una felice e breve eccezione: rifiutò spesso di usare la violenza anche di fronte alle pressanti richieste papali; si impegnò per la convivenza pacifica di religioni differenti – e lui stesso spaziava dal greco all’arabo, dai costumi classici degli occidentali alle tradizioni musulmane – e rimase legato alla “sua Sicilia” fino alla fine dei suoi giorni. Governare sullo slancio della cultura, della sensibilità, dell’incontro partecipato con chi è portatore di un’altra visione. Sembra quasi un’utopia, eppure qualcuno riuscì a farlo, anche se non a lungo. Ecco allora la risposta: a questo servì il suo afflato lirico. A costruire, in forza di una bellezza eterna, un mito e un modello senza tempo. Anche per le miopi generazioni politiche che si sono succedute negli ultimi anni, dimentiche dell’importanza della cultura come base di un radioso quadro sociale.

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