In guerra non ci sono libertà e vincitori: la lezione di Savarese e dello Sbarco nel ‘43
Siamo ancora, irrimediabilmente, figli del Novecento. Figli di un’idea perversa di libertà, legata a doppio filo all’inspiegabile necessità della guerra. Siamo ancora lì, arroccati su torri e trincee dimentiche di ogni diritto, su quei campi di battaglia martoriati dall’esasperato tentativo di strappare anche solo un metro quadro alle grinfie degli avversari. Guardiamo con ammirazione alle imprese di conquista, alle “disinteressate” gesta di liberazione, al trionfo di chi ha promesso di ristabilire l’ordine e la pace. Ma dimentichiamo ciò che davvero conta, il dato più immediato e sconcertante: nessuno, dalla guerra, può uscire vincitore. Non esiste cura, rimedio, antidoto al tempo e alla quiete che le sue vittime si sono viste sottrarre. Nel momento in cui essa si manifesta, in cui il rombo delle sue atrocità si mescola alle grida di dolore, è già troppo tardi. È il suo stesso, fulmineo accadere a decretare la fine di ogni speranza. Prima ancora che, in un modo o nell’altro, il conflitto si concluda, la sconfitta di ogni umano sentimento è già una realtà. Quale ucraino, ad esempio, mentre i leader di tutto il mondo si riempiono la bocca starnazzando di improbabili ricostruzioni e forniture belliche sempre più ingenti, anche qualora le sorti del conflitto gli arridessero, potrebbe dirsi vincitore dopo quanto accaduto a Mariupol, a Bakmuth o ancor più di recente a Kramators’k? O – per tornare appena più indietro – quale bosniaco, nonostante l’indipendenza, potrebbe affermarlo dopo il sanguinoso assedio di Sarajevo? Ma, si sa, imparare dal passato, spesso, è un esercizio che non riesce chissà quanto bene. E noi siciliani, in una certa misura, ne abbiamo consapevolezza in prima persona. Perché basta riportare la mente a quel fatidico luglio 1943, alla pompa magna dello Sbarco degli Alleati, per trovare anche nella nostra terra le tracce schizofreniche della guerra. Fu lo scrittore ennese Nino Savarese a ricostruirne le ombre. A dare testimonianza di come la cosiddetta Operazione Husky abbia cambiato per sempre il volto dell’isola.
In Cronachetta siciliana dell’estate 1943 – opera a metà tra memorialistica e indagine storica – lo scrittore siciliano ripercorre alcuni dei momenti più significativi dell’evento che sancì il cambio di inerzia del secondo conflitto mondiale. Quella di Savarese è, a tutti gli effetti, una demitizzazione dei fatti: dalle riunioni dei grandi protagonisti di quegli anni – Churchill, De Gaulle Eisenhower – emergono il cinismo e la superficialità con cui questi stabilivano le proprie aree di influenza. Tra ripicche, infantili rivalità tra generali inglesi ed americani vogliosi di oscurare con la propria avanzata i risultati della controparte e improvvisazioni messe in piedi sul momento, la grande Storia, una volta di più, appare come la somma di interessi individuali e utilitaristici. Come l’opportunità di aspirare ad una grandezza che, tuttavia, non avrà riscontro effettivo nelle vite dei presunti liberati. Perché in questo quadro così apparentemente epico il convitato di pietra non è che il popolo siciliano: dimenticato, trafitto, sconvolto dal caos bellico. Sembra quasi un rito blasfemo, quello dei caccia che sorvolano il cielo siciliano. Presagio di morte che interrompe e sovverte il ciclo millenario della natura e dell’agricoltura, che atterrisce gli ignari contadini siciliani – primi testimoni dell’imminente disastro – e sconquassa poi il resto della popolazione (tra cui proprio gli ennesi, vittime di un violento bombardamento). Così sfinita da augurarsi che tutto finisca presto, a prescindere che siano gli Alleati o i nemici ad avere la meglio. La guerra, sembra suggerirci Savarese, non è che un immenso, inafferrabile decadimento: materiale, certo, ma ancor più morale. È la rovina di popoli come quello isolano, tirato in mezzo alle grandi manovre dei potenti e ridotto ad elemosinare, oltre che i beni di prima necessità, soprattutto il silenzio delle armi. Un’immagine che altro non è se non un’ulteriore picconata alla vulgata che a lungo ha raccontato della cordialità dei forestieri e dell’accoglienza entusiasta degli autoctoni.
Perché è questo che fa la guerra. Crea subordinazioni, gerarchie. Crea i soccorritori e i disgraziati. Fa credere che la libertà possa essere elargita come una scheda o una razione. Senza che il gravare del suo peso possa essere avvertito. Ma si può dire libero un uomo, un popolo, uno Stato in cui la libertà è stata esportata? In cui il suo presupposto è la forza? In cui al valore inalienabile dell’autodeterminazione si è sostituita la logica del debito? In cui un intero collettivo consegna inerme la propria anima ad un altro?