Dante Alighieri sosteneva che la missione più nobile per un poeta fosse quella di dire. Di trovare sempre e comunque, anche con lo spirito funestato da tragici eventi e visioni sconcertanti, da profonde ferite e silenzi di tenebra, parole adeguate a raccontare le vette più alte e sublimi, così come gli orrori più inconfessabili, della nostra esistenza. Uno scopo certamente gravoso e straziante, ma al tempo stesso portatore di elitaria nobiltà, di un bisogno catartico che pertiene ad ogni essere umano e al suo interrogarsi sul perché di alcuni fatti che sfuggono alla sua comprensione. Perché la poesia è essenzialmente sintesi, concentrato di sentimenti travolgenti, raccolta di immagini che si fa miracolosamente linguaggio per educarci a trovare conforto nella sublime armonia dei suoi versi, o ad immergerci con spavento nel fragoroso terrore di cui spesso è stata testimone in prima linea. Dagli sfrenati inni patriottici di Lord Byron alle straordinarie pagine imbrattate dal fango della trincea di Ungaretti, passando per la tensione civile di Quasimodo e Fortini, da secoli la grande lirica si sforza di raccontare l’uomo nel momento in cui quest’ultimo, più di ogni altro, sembra perdere tale statuto: quello della guerra, delle barbare esecuzioni, dell’odio strisciante e consumante. Ma anche di trovare, tra le macerie più nere della storia, nelle selve più oscure di ogni conflitto, una scintilla di pietà che ci faccia sperare, anche solo per un giorno in più, che non tutto sia davvero perduto, marcito, sgretolato. Momenti come quello che ha fatto il giro della rete, in cui un soldato russo, poco più che ragazzino, si commuove alla vista della mamma in videochiamata, mentre i suoi presunti nemici – o quelli che gli erano stati mostrati tali – lo accudiscono con cibo e coperte, quasi consolandolo del suo essere stato un letale invasore. Nel turbinio più drammatico di un massacro senza quartiere, nel deserto più insondabile della vita, il pallido luccichio di un fiore. Lo stesso che Gesualdo Bufalino rintracciò in una sua commovente lirica, scritta nel 1944 nel pieno della Seconda guerra mondiale, all’ospedale di Scandiano.

Benché non prediligesse la forma poetica, lo scrittore di Comiso più volte vi ricorse per tracciare con ficcante bellezza l’affresco variopinto del cuore umano. Requiem per un nemico ignoto è un esempio a dir poco fulgido di questa sofferta ricerca. Una ricerca sussurrata, accantonata per anni come un appunto troppo scottante da lasciar raffreddare, inclusa originariamente in Annali del malanno alla stregua di un testamento che i posteri avrebbero dovuto ereditare, poi confluita nella raccolta Einaudi L’amaro miele e persino musicata, tramutata in canzone da Marco Rovelli nel 2014. Un anelito di purezza e fratellanza a dir poco impensabile nei giorni in cui gli scontri tra tedeschi e partigiani, ma soprattutto tra quest’ultimi e i collaborazionisti della Repubblica di Salò, infuriavano lungo tutta la penisola, innescando un clima di reciproci sospetti, di veleni e di ineffabili crudezze. Nella vicenda di un ufficiale nazista giunto d’emergenza nella sua stanza a seguito di un’imboscata, Bufalino condensa mirabilmente la bassezza del guerreggiare e la dignità della risposta morale che ad essa va opposta; l’abisso dell’estraneità e della freddezza, implicite nel mitragliarsi a volto coperto, con la sottrazione della morte al dimenticatoio voluto da una causa apparentemente indiscutibile e in realtà inesistente. L’ora più buia e la fiamma di compassione che la squarcia:

Crivellato di buchi neri,
Leutnant Adolf Enne Enne
in questa stanza del malanno
ti faccio posto volentieri.

Al mio “Morior ergo sum”
declamato contro il muro
vieni ad aggiungere pure
il bisbiglio del tuo “Warum?”

Vieni, entra sul letto a rotelle;
fra la mia branda e la porta
ci sta anche la tua morte,
mio più infelice fratello.

Ma prima conoscimi almeno,
scambiamoci un ja con un sì,
Leutnant Rudolf Chissachì
da Chissadove sul Meno.

Apri gli occhi, vedi: s’accende
ai vetri e s’attorce un angue
di secca luce e s’insanguina
nel sangue delle tue bende.

Fa presto alla fine di giugno
il sole a farsi crudele;
irto di spine, di peli,
si fa duro come un pugno.

È un tempo sublime e vile
tal quale voi l’avete fatto;
non puoi che subirne il patto:
coltello contro fucile.

Tu ancora ieri, ricordi?
Hai piantato con mani rosse
dieci croci su dieci fosse…
Non chiedere misericordia.

Che t’aspettavi da noi,
qui dove la tempesta
portasti e l’odio, alla testa
d’un turpe branco d’eroi?

Perfetta macchina di male
sei stato per noi, forestiero,
dall’orlo della visiera
alla punta degli stivali!

Ed ora, per ultimo rancio,
sia buona o cattiva guerra
ti tocca mangiarla, la terra
dove fiorisce l’arancio.

Lassù Gretchen, Liselotte,
nella vecchia casa sul fiume,
rammendano accanto al lume 
ignorano la tua morte.

È a loro che parli da solo?
Oppure al furetto sazio
che pigramente ti strazia
le viscere sotto il lenzuolo?

E questo gorgoglio che forse
nella tua ruvida lingua
mi dice una cosa e s’estingue,
è grido, preghiera, rimorso?

Ti premi con l’unghie l’addome,
con uno sforzo ti volti,
mi guardi: sai già che t’ho assolto,
Leutnant Hermann Senzanome.

Lacrimare dinanzi al volto stremato di un giovane russo finito in qualcosa più grande di lui non restituirà a chi si dispera le vittime delle bombe. E se anche tutto il mondo leggesse il canto Bufalino, le guerre continuerebbero imperterrite ad accadere. Ma questo non rende un’opzione rinunciare alla nostra umanità. È quella che, nascosta sotto i mucchi di cemento, prima o poi ci consentirà di spazzarli via. Perché, come diceva De André: «Io nel vedere quest’uomo che muore, Madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, Madre, ho imparato l’amore».

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