Perché l’isola, nonostante uno statuto speciale riconosciuto dalla Costituzione, non è al centro del dibattito al pari di Veneto e Lombardia? Le testimonianze dei siciliani in Spagna: «Torneremmo volentieri a casa se solo ci fosse una mentalità più aperta, come quella catalana»

Quali ragioni storiche spingono un popolo a chiedere l’indipendenza? In che modo le ragioni culturali, linguistiche s’intersecano con quelle economiche in un periodo di crisi? I recenti tafferugli in occasione del referendum indipendentista in Catalogna, finiti sotto gli obiettivi di tutti i media mondiali, spingono l’Occidente a interrogarsi su molti temi. In una prospettiva post-globale, che vede il sogno europeo sempre più minato dall’assenza di un’unità politica, la frammentazione interna a uno degli stati perno dell’UE potrebbe rappresentare l’ennesimo scossone che, sebbene non sia forte come quello causato dalla Brexit, potrebbe avere conseguenze sull’immagine già terremotata e divisa del vecchio continente. Allo stesso tempo, tuttavia, gli effetti del movimento indipendentista catalano (e della repressione para-totalitaria del governo spagnolo) sono rapportabili anche ai singoli scenari nazionali dei singoli stati membri. Quello italiano in particolare potrebbe essere abbastanza sensibile a queste dinamiche, con un dibattito acceso che vede i leghisti di Lombardia e Veneto pronti a precipitarsi alle urne il prossimo 22 ottobre per un referendum per l’autonomia regionale che sebbene Zaia si sia affrettato a sottolineare come «concesso da una sentenza delle corte costituzionale» bisogna vedere come verrà poi recepito dal nostro ordinamento. Ma perché la Sicilia, che pure gode di uno statuto speciale riconosciuto dalla nostra Costituzione (ma mai davvero applicato per un reale sviluppo dell’isola), non si pone oggi al centro di questo dibattito? Proviamo a capirne di più confrontando i diversi contesti e dialogando con alcuni siciliani che proprio nella “Catalonia” dei sogni hanno scelto di investire il loro futuro.

SICILIA E CATALOGNA. Sebbene lo scenario dell’isola sia stato spesso accostato a quello catalano – e alcuni anni addietro si sia tentato di costruirci sopra un progetto politico, probabilmente naufragato anche per l’endogena presenza di elementi di gattopardiana memoria – i due contesti si presentano radicalmente diversi, principalmente per una questione economica. Se da un lato le ragioni che hanno alimentato fenomeni come la Brexit (in una visione macroscopica) e il desiderio indipendentista di regioni come la Scozia, o la Lombardia sono ancorate sulla convinzione che la produttività del proprio territorio sia penalizzata da una gestione centralizzata, in Sicilia questo ragionamento è possibile solo in termini di potenziale. La Catalogna vanta 609mila imprese attive e un Pil di oltre 200 miliardi di euro: un quinto di quello nazionale spagnolo. Il Pil pro capite catalano sfiora i 30mila euro annui ed è decisamente più elevato della media spagnola che si ferma a 24mila euro (fonte Il Sole 24 Ore). Non sorprende quindi che un contesto di questo tipo, associato a un comportamento governativo volto a concedere meno di quanto fatto dalle precedenti amministrazioni in termini di autonomia, abbia alimentato un sentimento indipendentista che ha sì radici culturali e linguistiche, ma ancor prima finanziarie. «La Catalogna vanta una cultura aperta verso tutto il mondo – racconta Piero, ventinovenne di Spatafora (ME) che vive a Barcellona da quattro anni -. La gente rende questo posto fantastico perché la mentalità va oltre i classici schemi. I catalani hanno saputo valorizzare al massimo le loro risorse per dare servizi, scuole, comodità, “buen rollo” e rispetto verso tutti. Vedere quello a cui arriva un governo contro persone così, mi dà il volta stomaco, anche perché in questi anni ho parlato con centinaia d’indipendentisti e mai hanno dato la minima sensazione di razzismi, fascismi e stupidaggini varie che a volte leggo sui giornali». Secondo Piero, le differenze tra la Sicilia e la Catalogna, poi, si dipanano non solo sul piano della consapevolezza economica ma sull’approccio e la mentalità. «Tornerei volentieri in Sicilia se solo il 50% della gente avesse una mentalità più aperta, ma quando vedi la tua terra nel baratro, con la gente che ne asseconda l’andazzo, meglio fare le valigie».

Scontri tra votanti e polizia a Barcellona (video da Facebook)

LA CATALOGNA COME MODELLO. Del resto, l’immagine della Catalogna come la terra delle possibilità, delineatasi soprattutto durante i primi anni della grande recessione del 2008 (ma non solo), ha fatto sì che non pochi giovani da tutto il mondo decidessero d’investirci. Quanti studenti siciliani, magari all’indomani di uno spensierato Erasmus, hanno visto in Barcellona l’El Dorado, concependola come un luogo dove vivere secondo uno stile di vita mediterraneo, ma con più opportunità concrete di sviluppo? «La crisi in Catalogna ha avuto un impatto differente dall’Italia – racconta il quarantacinquenne Carmelo, che alcuni anni fa ha avviato un’attività imprenditoriale nella periferia di Barcellona –. Non è che lì manchino la burocrazia o i disservizi, ma vivere in una zona ricca, ben servita e funzionale aiuta molto: per aprire la mia attività ristorativa ci sono voluti solo 15 giorni». Oggi Carmelo è rientrato a Mineo, in provincia di Catania, e sogna per la Sicilia un futuro da vera regione autonoma. «Se solo si applicasse lo statuto siciliano, come avviene in Trentino o in Valle D’Aosta, questo posto potrebbe diventare un vero paradiso. Del resto, al di là del referendum, il modello catalano non necessariamente implica il separatismo. Molti barcellonesi, sebbene rivendichino una precisa identità culturale, non vogliono separarsi dalla Spagna, ma sono indignati dal fatto che venga loro impedito di esprimere la propria opinione».

IL PUNTO DI VISTA DI CHI VIVE A MADRID. Mariarita è una ventottenne di Augusta innamorata della Spagna, che frequenta da tredici anni. Attualmente vive a Madrid, dove sta svolgendo il servizio civile, e ci ha raccontato il sentimento che si respira nella capitale. «I miei amici reagiscono con rabbia alle immagini che arrivano dai telegiornali. Dopo il caos gettato in Europa dalla Brexit ci si chiede cosa potrà accadere all’interno di un paese che ha proliferato grazie alla sua unità nazionale». Il prossimo 12 ottobre, intanto sarà la festa della “hispanidad”, in che modo sarà vissuta dagli indipendentisti? «La paura diffusa tra gli spagnoli – spiega ancora Mariarita – è anche quella di una reazione a catena e che anche i paesi baschi e l’Andalusia optino per la scissione». Intanto però, a differenza del clima concitato di Barcellona, tra le vie di Madrid non si respira particolare tensione. «Il clima in generale è tranquillo, la vita continua serena tra una cerveza e una copa e le giornate sono lunghe in attesa dei risultati del referendum». Quando chiediamo a Mariarita un commento sul parallellismo Catalogna – Sicilia risponde sorridendo: «Noi siamo diversi. Abbiamo il senso di appartenenza alla nostra terra, ma anche al nostro Paese, ai colori della bandiera. Ci siamo battuti per l’unità d’Italia e ce la teniamo stretta. Non vogliamo il ponte sullo stretto solo per non intaccare la nostra “isolitudine”, ma non vogliamo staccarci dal resto del nostro bellissimo Paese che con pregi e difetti, tanti, resta il posto più bello del mondo».

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