Fino a domenica 24 marzo sarà in scena l’opera di Umberto Giordano, assente dal palcoscenico del Teatro Massimo Bellini da oltre quarant’anni, con la regia di Salvo Piro e la direzione di Gennaro Cappabianca

«Non hai l’età, figliolo», potrebbe aver risposto Victorien Sardou a Umberto Giordano che gli chiedeva i diritti del dramma “Fedora” per poterlo musicare. Il giovane, studente al Conservatorio di San Pietro a Majella, aveva assistito proprio a Napoli nel 1885 alla messa in scena dell’opera, scritta per Sarah Bernhardt, rimanendone favorevolmente colpito. Dovette tuttavia attendere a lungo prima di ottenerne il consenso che arrivò solo dopo numerosi tentativi portati avanti dall’editore Sonzogno ma soprattutto dopo il successo di “Andrea Chénier”, che lo consacrò a tutti gli effetti come esponente della Giovane Scuola. “Fedora” debuttò a Milano il 17 novembre 1898 con un grande successo di pubblico ma soprattutto con la vittoria personale di Giordano che in quell’occasione diresse personalmente i tre atti adattati da Arturo Colautti.

UNA SPY STORY. “Fedora” per quanto stringata rispetto all’opera in prosa è un thriller internazionale che si snoda fra Pietroburgo, Parigi e Oberland, ma è anche la vendetta della Principessa Romazov, ricca vedova, disposta a tutto pur di assicurare alla legge l’assassino del suo promesso sposo, il conte Vladimiro Andrejevich. Come in ogni giallo che si rispetti però le cose non sono mai come sembrano: il conte Loris Ipanov ha ucciso il rivale non per ragioni politiche bensì passionali, dopo aver scoperto la relazione fra lui e la moglie. L’opera, che mancava da ben quarantaquattro anni dal TMB, va a concludere un miniciclo dedicato a Giordano dopo l’”Andrea Chénier” dello scorso anno. Sicuramente una produzione sofferta a causa degli alti costi che non hanno permesso di portare in scena, come annunciato, la storica edizione scaligera di Puggelli, dell’improvviso infortunio di Daniel Oren ma soprattutto dei pesanti tagli subiti dall’Ente che hanno creato un vero terremoto in un teatro dal già precario equilibrio.

METATEATRO. Salvo Piro, con estrema determinazione ha impresso una visione pirandelliana della messa in scena, mostrando gli interpreti che si preparano a entrare nel personaggio e palesando allo spettatore il dietro le quinte, con i numerosi cambi a vista ma soprattutto con questo finale disarmante in cui la protagonista, prossima alla morte, esce di scena mentre il fondale viene sollevato e dal retropalco fa capolino la numerosa attrezzeria e i lavoratori, che in abiti borghesi, si mostrano alla platea silenziosi in segno di protesta. Come a dire che tutto è finito, l’arte ha perso il suo ruolo in una società frenetica in cui la spettatrice che mi siede accanto non riesce a stare in silenzio neppure dopo l’inizio del preludio e in cui convulsamente controlla il cellulare. In un tripudio di paradossi un appello: “Non facciamola morire”; già, non lasciamo che l’arte, la bellezza, il sublime svaniscano dalle nostre esistenze, anche se non sembrano esserci particolari slanci né dal basso né dall’alto.

Un momento dei ringraziamenti (Foto di Giacomo Orlando)
Un momento dei ringraziamenti (Foto di Giacomo Orlando)

LA MESSA IN SCENA. Piro nella sua riflessione mantiene sempre un rigore narrativo ed esalta al meglio le figure, in particolare durante i momenti introspettivi, quando luci dall’alone verde acqua focalizzano l’attenzione ora sullo stato d’animo di Fedora, che scrive la lettera che condannerà Loris, ora sulla confessione di quest’ultimo alla Principessa. Una scena agìta in cui i personaggi, talvolta di spalle al pubblico, sono protesi allo svolgimento dell’azione che come in un turbinio di note prosegue a ritmo frenetico. Niente è lasciato alle circostanze neppure quando durante il II atto, affacciata alla barcaccia di destra, l’affascinante contessa Olga scopre in quella di sinistra il suo cavaliere, il pianista Boleslao Lazinski, a corteggiare una delle invitate. Cura meticolosa è riservata alle luci in cui il gioco di chiaroscuri contribuisce ed esaltare la scena sul letto di morte di Vladimiro e in cui le suggestive silhouette, che concludono i primi due atti, sono un omaggio al teatro strehleriano di cui il regista, pupillo di Puggelli, è evidente estimatore. Imponente la macchina scenica di Alfredo Troisi che si avvale di una porzione di parete attraversata da due porte e riccamente decorata per riprodurre il lussuoso palazzo del conte e di due pannelli che raffigurano i famosi quadri di Alfons Mucha, doppio omaggio alla Bernhardt e all’Art Nouveau dell’appartamento parigino e infine le vetrate azzurre e blu della casa svizzera, il cui giardino presenta arredi in vimini bianco e fioriere in pietra. Una scena di grande impatto visivo ma anche di complessa gestione; Troisi qui cura anche i costumi adornati da scintillanti gioielli, guanti in raso e ventagli. Certo il costumista ha un suo stile, anche se il risultato lascia alcune perplessità sia sulla contestualizzazione che sulla vestibilità.

Anastasia Bartoli nei panni di Olga esegue l'aria "Il parigino" (Foto di Giacomo Orlando)"
Anastasia Bartoli nei panni di Olga esegue l’aria “Il parigino” (Foto di Giacomo Orlando)”

SONORITÀ. Contributo non indifferente è fornito dalla direzione del Maestro Gennaro Cappabianca e dal rigore dell’Orchestra del TMB, che sottolinea l’articolata sintassi del discorso musicale. Brillano per tessitura vocale e spessore recitativo il soprano Ira Bertman e il tenore Seregey Polyakov. La Bertman esprime magnificamente i sentimenti di cui è in balia e che ne accrescono l’alta caratura drammatica. Ha un timbro intenso e un bellissimo vibrato pieno, lo stesso si può dire per la penetrante vocalità di Polyakov, nonostante qualche imprecisione iniziale. In quest’opera corale non possiamo non citare Anastasia Bartoli nei panni di Olga, la quale esprime con forza, la joei de vivre e la frivolezza data dal carattere e dall’età, come nell’aria “Il parigino” e Ionut Pascu (De Siriex) baritono scuro e omogeneo nell’emissione. Vanno altresì menzionati il tenore Riccardo Palazzo per l’istrionica e voluttuosa interpretazione (Sergio e Barone Ruvel), l’intenso Dante Roberto Muro (Grech), il convincente Salvo Di Salvo. Bene anche Andrea Bianchi (Desiré) e Gianluca Tumino (Nicola e Borov). Leggermente in ombra sono Sonia Fortunato (Dimitri), debole nel registro medio-basso; Angelo Nardinocchi (Cirillo) e il piccolo savoiardo (Sabrina Messina). A completare il cast: il mimo Valerio Severino, Sebastiano Sicurezza (Ivan) e la più che straordinaria Paola Selvaggio che in scena ha eseguito al pianoforte, rispondendo all’idea del regista, il notturno composto da Giordano alla manièr de Chopin. Una messa in scena che guarda all’oggi senza dimenticare l’importanza del passato.

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