Scacciare i fantasmi della miseria. Trovare un senso nella nebbia delle nostre incertezze, un balsamo per le ferite dell’anima. La letteratura, si sa, ha un che di terapeutico. Sa analizzare e avvicinare alla nostra sensibilità la storia e i protagonisti che la scrivono; sa dare forma alla speranza e conforto al desiderio; sa, soprattutto, unire le comunità oltre il tempo e lo spazio, dare loro uno scopo e un’identità, un orgoglio e una missione che faccia da motore al loro agire. Anche i siciliani, tuttora, si stanno impegnando per portare a compimento la propria. Un compito arduo, a tratti utopistico, rincorso affannosamente attraverso le suggestioni della scrittura, ora intravisto all’orizzonte e contemplato alla stregua di un miraggio, ora afferrato ma barbaramente negato dalla sorte. È forse questo ciò che i nostri illustri predecessori ci hanno insegnato a seguire? Un’illusione destinata ad allietare attimi fugaci per poi svanire senza lasciare traccia? O un tesoro dimenticato in attesa che qualcuno si ricordi dove è stato seppellito? È la felicità ciò che i siciliani si battono per conquistare, con una determinazione che fatica a trovare eguali. Fu Vincenzo Consolo il primo ad avere questa intuizione. E a spiegare il perché di questa nostra caratteristica attitudine esistenziale.

Ogni fibra del nostro essere isolani testimonia l’inscindibile legame che ci tiene ancorati alla scrittura e che ci rende, da questo punto di vista, una delle realtà che ha sfornato più scrittori in assoluto: è un bisogno di raccontarsi, di interrogarsi su un presente che non ci soddisfa mai pienamente, di colmare il nostro congenito isolamento attraverso il tentativo di farsi ascoltare. Prima ancora che creazione, in Sicilia la letteratura è tensione alla vita e ai suoi misteri. È viaggio e meta, passato e futuro: «Il motivo – ebbe a dire il nativo di Sant’Agata di Militello in un’intervista del 1999 nella quale Grazia Casagrande gli chiese da dove derivasse la nostra abbondanza di autori – credo risieda nel fatto che la Sicilia ha sempre avuto una storia sociale non felice e questo ha portato molti a chiedersi la ragione di questa infelicità sociale a cercarne una spiegazione attraverso la scrittura. La Sicilia è soprattutto una terra di narratori più che di poeti. Attraverso il romanzo si cerca di trovare le ragioni della complessità culturale e linguistica e anche le ragioni di questa perenne infelicità sociale». Siamo un popolo di teatranti: camuffiamo l’insoddisfazione dietro lo schermo del fatalismo, la sofferenza all’ombra della nostra proverbiale ironia, le fragilità dietro lo spirito guascone e battagliero. Ci destreggiamo sul filo sottilissimo che separa ciò che vorremmo diventare da ciò che ci è consentito essere e ci crucciamo amaramente delle nostre mancanze. Della bellezza che sprechiamo, dei progetti che abbiamo rinunciato a realizzare, delle parole che non sappiamo dire. «L’io siciliano – disse sempre Consolo in un’altra occasione – è ammaccato, e quindi arriva alla maturità molto prima e con più dolore degli altri, forse. Il rischio, però, è di non maturare assolutamente e di perdere la ragione; il crinale sui cui si cammina pericolosamente è quello di annientarsi, oppure di avere un consapevole dolore di questa maturità a cui si arriva con le ammaccature. Mantenere la ragione, in Sicilia, è estremamente difficile ed è una fatica continua».

Ma proprio a questo serve la scrittura. A illuminare il nostro cammino accidentato, a fare i conti con quelle verità scomode che sarebbe più comodo ignorare, a riscoprirci capaci di immaginare e costruire un domani diverso. L’infelicità menzionata da Consolo, per i nostri scrittori, non è stata – e non è – solo uno specchio attraverso cui porre delle domande, ma un pungolo alla rinascita, un testamento di rivalsa, una patente di unicità capace di sottrarci, con la forza del sentimento, al vacillare della ragione. Perché la letteratura, specie per i siciliani, è così: semina colore in mezzo all’aridità, parte con i piedi piantati a terra per poi spiccare il volo e osservare dall’alto. Prende il buono che c’è nella sofferenza per trasformarlo in sopravvivenza.

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