La poesia tra la memoria e il cielo: Consolo, “Lunaria” e la fantasia che salva il mondo

Cosa accadrebbe se, un giorno, perdessimo la capacità di comporre poesie? Se in un rapido, inspiegabile, drammatico turbinio di eventi le raffinate illusioni che da sempre ci hanno tenuto in piedi si sfaldassero fino al punto da scomparire? Probabilmente vagheremmo smarriti per l’arido mondo che rimarrebbe a farci triste compagnia. Saremmo come sperduti viandanti che si ostinano a puntare il naso all’insù, verso la volta stellata, in cerca di un pallido riflesso di vita. Saremmo come marinai senza nave e senza vento, aggrappati, nel mare tempestoso della vita, ad una luna in decomposizione. Perché perderla, la poesia, sarebbe un po’ come morire. Strapparsi il cuore e accartocciarlo fino a renderlo irriconoscibile. Sarebbe come snaturare il linguaggio stesso, ritrovarsi a farfugliare ragioni incomprensibili, stranieri gli un agli altri come in un nuovo, vecchio regno di Babele. Fu Vincenzo Consolo ad immaginare un simile scenario. Un frangente di storia idealmente collocato nel ‘700, in cui nella fiabesca Contrada Senza Nome il satellite terrestre sta cadendo a pezzi dopo il sogno premonitore del Viceré, che l’aveva vista abbattersi al suolo lasciando un immenso buco nero nel cielo. «Ero in cima alla torre, sulla terrazza dell’Osservatorio dove l’Abate astronomo m’indicava Cerere e altre stelle intorno… Quand’ecco all’improvviso distaccarsi la Luna. Allora, guardando il cielo, vedo, dove lei s’era divelta, un’orma, una nicchia, un vano nero che m’attrae e dona nel contempo le vertigini…». È quasi una scena da teatro dell’assurdo – o l’incipit di una pellicola ispirata ad un dipinto di Dalì – quella che dà il La a Lunaria (1985), una delle opere più visionarie nate dalla penna dello scrittore di Sant’Agata di Militello. Un elogio spassionato e a tratti malinconico dell’arte poetica, e tuttavia caratterizzato da un’ammaliante semplicità, da una leggerezza che quasi lo avvicina alle pagine più giocose di Calvino o di Rodari.

Una carrellata di improbabili personaggi e istituzioni, infatti, affolla questa surreale vicenda, centrata sulla disperata ricerca di un rimedio allo sfaldamento lunare. C’è l’Accademia dei Platoni Redivivi, che disputa di inutili questioni metafisiche mentre orde di fate e folletti prendono possesso della stanza in cui si è tenuta la bislacca riunione. C’è il caporale ubriacone, che malvolentieri esegue gli ordini del Viceré masticando ordini perentori e stizziti nel tentativo maldestro di portare avanti le indagini sulla tragedia lunare. E poi ci sono i villani, gli abitanti del paesino che, più di tutti, appaiono mortificati da quanto sta avvenendo. La luna morente, ai loro occhi, è un sogno strappato, la distruzione della dimensione del sacro. «Luna nova, Luna nave, su nel cielo a navigare. Melograno e la lumía, la parola di magía» intonano invocandola, come pastori leopardiani che si preoccupano di rivolgerle l’ultimo saluto. Sono l’allegoria dell’autenticità, l’immagine della memoria che si sforza oltre il proprio limite di trattenere a sé ogni frammento di vita prima che sia troppo tardi. La poesia stessa è, essenzialmente, memoria. Memoria dell’anima che si tramuta in parola. È garanzia di umanità nel tramestio dell’esistenza, rito inalienabile che congiunge e separa vita e morte. E non è certo un caso che l’explicit dell’opera lasci spazio ad una simbolica pratica di inumazione, prima del fantasioso finale: i villani vestiti di nero stanno seppellendo ciò che resta della luna, ma di lì a poco essa ricompare misteriosamente nel cielo, con ancora una macchia nera sul proprio candido manto. Una macchia riempita definitivamente dal Viceré, che salendo su una scala vi appone il pezzo mancante, stabilendo che da quel momento la contrada avrebbe preso la denominazione di Lunaria. Come a dire che la poesia – e dunque la memoria – pretendono l’ingenuità dello sguardo.

Ma anche la sincerità del sentire. Non è la narcisistica speculazione degli intellettuali a darle senso. Né la superficialità di chi vorrebbe ridurla ad un fatto umano come tanti altri. È, piuttosto, la disponibilità a coltivarla, inseguirla, omaggiarla. È la fiducia di credere che prima o poi tornerà a splendere in mezzo all’oscurità di ciò che la rifugge. Che il pezzo mancante altri non siamo che noi.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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