C’è, nella storia dell’uomo, un interrogativo amletico che condiziona il suo agire. Un cruccio, un tarlo silenzioso ma inesorabile che si aggira nella sua mente anche quando la sua veemenza pare sopita. È il dubbio dei creativi e degli erranti di spirito, il pungolo di coloro che galleggiano dolorosamente tra autenticità e disincanto. Il bivio dinanzi al quale scrittori e artisti in genere si ritrovano continuamente catapultati. Arte o vita? Realtà o finzione? Atto o parola? È questa dicotomia variamente declinata che lo affligge. Il non sapere fino a che punto questi termini stiano in contraddizione tra loro, dove e quando cominci la loro armonia. A volte sembrano superarsi, negarsi l’un l’altro, sparire di colpo insieme. Altre volte ricompaiono, carichi di suggestioni rinnovate, di domande aggiuntive ed inedite. Ma sempre con equivoco di fondo: tra arte e vita, si può decretare un vincitore? Quale delle due nutre l’immaginario dell’altra? Un buon modo per trovare una risposta è partire da chi, per lunghi tratti della sua vita, questo tema lo ha sviscerato con inesauribile passione. Quel Vincenzo Consolo autore di un romanzo, Retablo (1987), dai contorni quasi fiabeschi, sospeso a metà tra la coerenza formale della sua tripartizione e l’utopismo di una lingua strabordante, a tratti persino inesistente. Un romanzo in cui i piani del fittizio si scrutano, si confondono, si ingannano piacevolmente. In cui la poetica del singolo, così come l’universalità del sentire, si incarnano in personaggi memorabili e paradigmatici.

Fabrizio Clerici e frate Isidoro, infatti, condividono una misteriosa specularità nonostante l’abissale lontananza che li separa. Nel teatro di una scintillante Sicilia settecentesca, entrambi, infatti, tentano disperatamente di sfuggire al proprio passato. Al gioco di seduzioni di cui sono stati inermi vittime. Il primo, raffinato pittore lombardo in cerca di sé stesso, approda nell’isola per sfuggire, attraverso una fantasmagorica immersione nelle sue monumentali bellezze, per dimenticare l’amata Teresa Blasco. Il secondo, invece, si lascia consumare dal sentimento per la bella Rosalia, al punto da mettere in discussione persino la propria vocazione religiosa. Strade opposte, certo, eppure ad un tratto convergenti. Perché è vero che Clerici vorrebbe porre rimedio al proprio mal d’amore ascendendo ad una dimensione pressoché metafisica, annegando i dispiaceri e gli affanni del mondo nella perpetua magnificenza dell’arte; ed è altrettanto vero che Isidoro vorrebbe piuttosto squarciare il reticolo di doveri che lo ingabbia, secolarizzare il suo cuore affamato di piacere. Ma è proprio in questo impulso a lasciarsi qualcosa alle spalle, ad esplorare l’ignoto che si cela nel loro stesso immaginario, che sta la chiave del loro miracoloso incontro. Ciò che l’arte e la vita non sono riuscite a procurare ed entrambi è speranzosamente riposto nel loro contrario. Fino a quando contrario non è più. Come quando, ad esempio, Isidoro, che per un momento ha persino sovrapposto il suo amore per Rosalia a quello della celebre santa, non si lascia andare ad un soave monologo: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha roso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine, rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?». Cos’è, questa dichiarazione, se non poesia? Cos’è se non la lingua che supera, perfeziona, trasforma sé stessa? Se non la vita che prende la forma dell’arte? Sulla medesima scia si colloca la consapevolezza finale acquisita dal Clerici, grazie al quale anche il titolo del romanzo si apre definitivamente al lettore in tutta la sua pregnanza: «E il mio diario dunque ha proceduto come la tavola in alto d’un retablo che poggia su una predella o base già dipinta, sopra la memoria vera, vale a dire, e originale, scritta da una fanciulla di nome Rosalia. Che temo sia la Rosalia amata da don Vito Sammataro, per la quale uccise, e si convertì in brigante. O pure, che ne sappiamo?, la Rosalia di Isidoro. O solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore». Tutti, in fondo, sono come il pittore e il frate. Tutti ai piedi di quel retablo che ciclicamente ci tocca percorrere, affrontare.

Già, il retablo. La pala d’altare tripartita, tipica della cultura spagnola e sudamericana, in cui spesso trovano spazio storie di miracoli. E un miracolo, questo romanzo, come mirabilmente lo definì Sciascia, un po’ lo è. Così come la risposta che è in grado di fornirci. Arte e vita sono gemelle. Si separano, a volte, ma solo momentaneamente. Si rincorrono e si riacciuffano. Diventano la stessa cosa. Dipendono l’una dall’l’altra. Così che separarle non è più fattibile. Così che senza l’una non possa esistere neanche l’altra.

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