La Shoah negli occhi di un bambino: Camilleri e l’amico ritrovato
Quando si parla di Shoah, ripercorrendo con un nodo alla gola i numeri impressionanti di questa barbara follia, il rischio concreto è quello di perdersi. Di fermarsi a considerare un quadro d’insieme che, per quanto eloquente, rischia comunque inevitabilmente di apparire lontano, indistinto. Di arrestare la propria commozione alle soglie di quell’anonimato che avvolge tanti innocenti senza nome e senza volto. Sì, il rischio è quello di perdersi. Di ignorare il dettaglio, la piccolezza, la singolarità. Di lasciarsi sfuggire le storie che da quell’oceano di dolore non sono riuscite a riemergere. Né con un diario, né con un romanzo, né con la voce rotta dei ricordi. Le storie di chi ha inciso il proprio nome su una ciotola ammaccata per poterla ritrovare e scampare alla morte per qualche ora in più; quelle di un bambino attaccato al proprio quadernetto, trasformato per l’occasione in un fumetto di fortuna o di una bambola caduta nel fango, strappata a chissà quale bambina al di là di un filo spinato che le avrebbe separate per sempre; quelle rimaste impigliate in vestiti, cimeli, oggetti minuti accatastati nel freddo vetro di una teca. È in queste vicende sommerse dal mare della storia, nel silenzio che dopo tutti questi anni non ha smesso di rimbombare, che è racchiuso il senso più autentico della tragedia. Dell’insensatezza dell’Olocausto.
Una di queste storie, tuttavia, quella coltre di silenzio è riuscita a squarciarla. Ed il merito è anche, e soprattutto, di Andrea Camilleri e del suo Certi momenti, pubblicato da Chiarelettere nel 2015. In questa sorta di memoriale letterario, infatti, lo scrittore empedoclino, armato della sua proverbiale ed infallibile memoria, ripercorre alcuni degli incontri che, a posteriori, si sono rivelati di cruciale influenza per la sua vita. Uno, in particolare, risale al 1938: l’anno infame delle leggi razziali in Italia. Ha per protagonista un compagno di classe con cui Camilleri, allora tredicenne, condivide una particolare amicizia. Il suo nome era David Perna, ma per qualche bislacco motivo, ci dice l’autore, tutti avevano preso a chiamarlo semplicemente Pippo. Fu un incontro fugace. Come una di quelle scintille fulminee, effimere, che si abbarbicano su un muro o su un pavimento con il segno bruciacchiato della loro detonazione. «Una mattina, alla fine delle lezioni, Pippo mi chiamò in disparte e mi disse che dal giorno seguente non avrebbe più frequentato la scuola. Siccome era figlio di un ferroviere, pensai che suo padre fosse stato trasferito altrove. Ne volli conferma: “Tuo padre è stato trasferito?” gli domandai. “No, – rispose – nemmeno papà potrà più lavorare”. “Ma perché?”. Ebbe un sorriso amarissimo. “Perché siamo ebrei”. Ci abbracciammo». Pippo, nel giro di qualche minuto, divenne qualcosa che si avvicinava ad un fantasma. Un fantasma di cui solo il nostro autore sembrava ricordarsi qualcosa. È straziante il modo in cui il papà di Montalbano ripercorre l’incredulità che si impossessò della sua fanciullezza: le corse a casa per chiedere delucidazioni alla famiglia, lo sdegno del padre fascista disilluso dal vile atto di quel regime che tanto aveva idolatrato, la costante inquietudine derivante dalla mancanza di qualsivoglia notizia. Solo nel sonno Pippo tornava a comparire al cospetto del suo caro amico: «Naturalmente negli anni che seguirono non ebbi più notizie di Pippo; ma quando, finita la guerra, cominciammo a leggere dell’Olocausto e, peggio ancora, vedemmo i documentari sui campi di concentramento e di sterminio dei nazisti, l’immagine del mio amico Pippo cominciò a tormentare i miei giorni e le mie notti, lo confesso con tutta sincerità. Certe volte mi svegliavo di colpo in piena notte chiedendomi che fine avesse fatto il mio amico, se fosse stato catturato dai tedeschi e inviato in uno di quegli orrendi campi, o se fosse in qualche modo riuscito a sopravvivere. Mi rimisi in contatto telefonico da Roma con qualche vecchio compagno di scuola: nessuno seppe darmi notizie di Pippo».
Ma è nella singolarità, si diceva, che tutto assume sostanza. Che il quadro generale va incontro, una volta tanto, ad una distorsione peculiare. Alla salvifica deviazione da un fato apparentemente incontestabile. Perché è negli Ottanta che quell’incubo d’infanzia si trasforma in una fiaba a lieto fine. Proprio qui, in Sicilia, con Camilleri intento a supervisionare la messa in scena di un suo spettacolo presso il teatro greco di Tindari. Ignaro che di lì a poco, silenzioso e riservato come era sempre stato, quel fantasma sarebbe riapparso con volto lieto dopo aver chiesto di incontrarlo. «Gli andai incontro: era un perfetto sconosciuto. “Sono Andrea Camilleri, cercava me?”. L’uomo, che era di piccola statura, molto ben vestito, mi guardò a lungo, non rispondendo subito alla mia domanda. Poi, a sua volta, chiese: “Lei è Nené Camilleri?”. “Sì – risposi –, ma lei chi è?”. Di scatto l’uomo mi gettò le braccia al collo, mi strinse forte, mi disse all’orecchio: “Sono Pippo Perna”. E ci ritrovammo tutti e due abbracciati con le lacrime agli occhi. “Sono di passaggio” mi disse. “Ho due ore di tempo”». Di comune accordo andammo in un caffè vicino, ci sedemmo a un tavolo. Mi raccontò che nel ’38 avevano lasciato Agrigento, che con suo padre e sua madre erano andati a rifugiarsi presso uno zio che possedeva dei campi nella Sila, in Calabria. Suo padre aveva lavorato nei campi del fratello, sua madre si era messa a fare la sarta, e così erano riusciti a sopravvivere. Lui aveva continuato a studiare prendendo lezioni private dal parroco del paese, dove tutti avevano finto di non sapere che la famiglia Perna era ebrea. Così erano riusciti a scamparla. Lui, finita la guerra, aveva dato tutti gli esami che non aveva potuto sostenere durante il fascismo, poi si era iscritto all’università, dove si era laureato in ingegneria. Era venuto a Roma per affari, quando aveva visto un manifesto teatrale col mio nome.
Pochi furono altrettanto fortunati. E anche a Pippo, che pure scampò all’orrore, nessuno avrebbe potuto ridare ciò che aveva lasciato nella classe da cui era stato malamente sfrattato. Solo quell’abbraccio gli restituì una parte di sé. E anche noi, figuratamente, ci aggrappiamo forte alla memoria. Per tutti quei Pippo Perna inghiottiti dal Male. Per tornare in contatto con quell’umanità che stiamo smarrendo.