La “Petra lavica” di Kaballà nel Golfo dei poeti
«Non so degli altri, ma nel più oscuro e ignaro siciliano fuori della Sicilia, come nel più consapevole, l’infanzia è la terra dell’infanzia, e per ogni siciliano fuori e dentro l’isola la terra dell’infanzia è l’infanzia sua e del genere umano». Leggendo queste parole scritte da Basilio Reale in Sirene siciliane. L’anima esiliata in «Lighea» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Giuseppe “Kaballà” Rinaldi segue le tracce del Vittorini di Conversazione in Sicilia in compagnia del fantasma di Gesualdo Bufalino, abituale frequentatore delle stanze della villa di Kamarina che ospita in questi giorni di agosto l’autore di Petra lavica. Spostandosi fra Caltagirone, città dove nacque 68 anni fa, Enna, Piazza Armerina, Scicli e Morgantina, va alla riscoperta di Demetra che «donò il frumento agli uomini», di Ade che rapì Persefone, di Galatea che amò Aci. «Una abbuffata di fanciullezza», ride Pippo Rinaldi. Un viaggio nell’Isola che non c’è più, luogo di ricordi evocati dalle pagine di grandi autori della letteratura, come nello spettacolo che porta da tempo in scena.
Con la Sicilia Kaballà ha avuto un rapporto contrastato. «Fino all’università sono rimasto a Catania, poi a 24 anni la fuga a Milano», racconta. «Negli anni Settanta rifiutavo le mie origini. È stato Francesco Virlinzi, negli anni Ottanta, ad aiutarmi a ricomporre il mio rapporto con l’Isola. Che io ho maturato in musica».
Oggi la relazione con la sua terra è più serena. Pur mantenendo Milano come base di partenza, Kaballà torna più spesso. Per un tuffo nel mare ragusano o per un incontro creativo con l’amico Mario Venuti, con il quale forma una collaudata e apprezzata coppia d’autori di canzoni di successo. «La mia è una Sicilia della memoria», tiene a sottolineare. «È l’idea della Sicilia che mi ha trasferito Vincenzo Consolo, scrittore che ho frequentato poco prima che morisse e con il quale ho dialogato spesso. È un’Isola che vivi da lontano, che ti appartiene culturalmente, piuttosto che fisicamente».
È la Sicilia di Verga, Vittorini, Sciascia, Brancati e Consolo che riaffiora nella memoria di Kaballà. «La letteratura rimpallata con la musica e poi con il cinema, quello di Visconti, Taviani e Sebastiano Gesù», spiega. «La mia formazione non è folk, io vengo dal pop, dal rock. L’innesto della Sicilia mi ha fatto abbracciare il dialetto, che manipolo e contamino mettendoci dentro le mie passioni: la canzone d’autore, la musica leggera. Per fortuna la maionese non è impazzita».
Tutt’altro. Tant’è che Pippo Rinaldi comincia a raccogliere i frutti. Agli inizi di luglio è stato protagonista della serata finale del Taormina Film Fest, dove ha ricevuto il premio Videobank, e il prossimo 22 agosto nel Golfo dei Poeti, luogo d’ispirazione per tanti letterati, da Lord Byron a Percy Bysshe Shelley, riceverà il prestigioso “Lerici Pea” per la sezione “Paolo Bertolani” (dal nome del noto poeta dialettale ligure) nella cui motivazione si legge: «Autore e musicista di rara intensità e raffinatezza, ha saputo fondere con talento e maestria la vocalità antica della lingua siciliana con sonorità contemporanee, mescidazioni e contaminazioni pop internazionali e sound mediterranei: vocalità e sonorità ricche, va da sé, di risonanze, echi letterari e musicali». Fra i modelli ispiratori, Manuel Cohen, autore della motivazione, indica: «Dal magistero del cantautorato di De André (che sposa letteratura alta e dialetto popolare), ai cantari della tradizione siciliana, fino ai poeti dialettali del Primo, del Secondo Novecento e di oggi, che hanno fatto grande la Sicilia: Ignazio Buttitta, Salvatore Di Pietro, Santo Calì, Giuseppe Battaglia, Nino Pino, Nino de Vita, Salvo Basso, Biagio Guerrera…». Quest’ultimo premiato nel 2019.
«Il rapporto tra canzone e poesia è molto stretto. La canzone si nutre di poesia, di metrica, endecasillabi, rime, strofe, assonanze», commenta Kaballà. «Io ho sempre letto poesie sin da giovane. Certo, poi negli anni Sessanta, con la musica d’autore, il poeta è stato sostituito dal menestrello di Duluth, Bob Dylan, si ascoltava l’antologia di Spoon River di De André piuttosto che leggere Edgar Lee Masters. Io sono accreditato come un “uomo di parole”, mi definiscono “paroliere”, ma preferisco essere considerato un musicista».
Il 22 agosto, quando nel giardino del Parco Shelley, a San Terenzo di Lerici, si svolgerà la cerimonia di premiazione, Kaballà, insieme con il suo fido compagno di viaggio Antonio Vasta, interpreterà il suo repertorio siciliano. Petra lavica in testa. «È quella alla quale sono più legato per ragioni affettive e rappresentative. È un po’ il compendio del mio rapporto con la mia terra, parla di Catania, dell’Etna, della lava, della cenere», confessa. «Per sintesi letteraria a me piace anche Sutta lu mari, che prende spunto da una novella di Giuseppe Tomasi di Lampedusa di una grande potenza poetica. E poi mi sta a cuore l’inedita Notte di Palermo tratta da Lunaria di Consolo».
“Di stu paisi cu li petri niuri / Pi troppi voti mi n’assa scappari / Ma quantu spunta u suli ntra lu mari… ” canta Kaballà all’inizio di Petra lavica. Per diverso tempo, tuttavia, quel sole per lui è spuntato proprio dal Mar Ligure. «È stato il mio mare, quello che ha surrogato la Sicilia per me abitante a Milano. Ho avuto case in diverse zone del Levante, dove andare a trascorrere i mesi estivi o cercare la pace per comporre. Dal Mar Ligure ho tratto nutrimento poetico per dischi come Lettere dal fondo del mare (1996). E poi tanti poeti e cantautori sono liguri. Ho letto tutto Eugenio Montale, l’album Crêuza de mä è stato una pietra miliare per me, mi ha portato a Petra lavica, disco al quale hanno lavorato diversi artisti che collaborarono con De André, come Massimo Bubola. Le Cinque Terre sono state la mia salvezza, il mio porto, lo sguardo verso il mare. I siciliani hanno scritto le loro migliori opere stando lontani dalla propria terra. Anche perché la cultura oggi in Sicilia è annegata nel degrado».
Di Kaballà ne esistono due. Il cantautore che scrive per se stesso, mettendoci le sue passioni e il ricordo della sua Sicilia, e il “paroliere” che offre la sua incessante ricerca dell’insolito espressivo ad altre voci, che nel tempo sono state quelle di Nina Zilli, Alessandra Amoroso, Carmen Consoli, Noemi, Anna Oxa, Eros Ramazzotti, Mietta, Marco Mengoni, Placido Domingo, Tony Canto, Alex Britti, Antonella Ruggiero, Robbie Williams, senza dimenticare le sue collaborazioni anche in ambito teatrale e cinematografico: da Francis Ford Coppola per il Padrino III, con il brano Brucia la Terra su musiche di Nino Rota, ad Alexander Galin, Daniele Pignatelli, Massimiliano Bruno solo per citarne alcuni. «La differenza c’è, ma è relativa», sottolinea. «Anche quando scrivo per altri devi rappresentare quello che sei, che sei stato. Devi avere una riconoscibilità». Oggi quel modo di scrivere canzoni che è del compositore siciliano e che è stato di Tenco, Paoli, De André, Lauzi, si sta smarrendo. «Prevalgono altri stili, il rap, il trap. È la fine di un’epoca». Ma non è un lamento quello di Kaballà. «Ci sono album che apprezzo, pur non rientrando nelle mie corde: Persona di Marracash o il disco di Madame sono buoni lavori». Chissà se un giorno, come accade al Premio Tenco, anche un rapper entrerà nel Golfo dei Poeti raccogliendo l’eredità del siciliano Giuseppe “Kaballà” Rinaldi