La scritta posta all’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz “Arbeit Macht Frei”, cioè “Il Lavoro Rende Liberi”, almeno per una volta ha detto la verità. Sì, proprio così, all’autore dello scatto scelto, proprio il suo lavoro ha permesso di avere salva la vita nell’unico posto al mondo dove esisteva un cancello di entrata e nessuna via di uscita, tranne che il camino del forno dove morirono milioni di persone.

L’autore della foto, Wilhelm Brasse, chiamato pure “il fotografo di Auschwitz”, era un internato: polacco, non ebreo, ma avverso all’arruolamento nella Wehrmacht, le forze armate tedesche,  è riuscito a non finire nel forno crematorio grazie alla sua professione. Internato nel 1941 col numero 3444, Brasse per cinque anni si vide sfilare davanti i volti e i corpi di migliaia e migliaia di persone, per lo più ebrei da fotografare in tre posizioni (profilo, di fronte e in posizione obliqua). Oggi molte di quelle immagini (non quelle più intollerabili, tuttora segrete) sono visibili al museo di Auschwitz.

In verità, Brasse non fu l’unico fotografo dei campi: come lui lavorarono ad esempio Georges Angéli a Buchenwald, Francisco Boix a Mauthausen. La segnaletica dello sterminio, che includeva la catalogazione fotografica minuziosa di tutte le vittime, dipendeva da una direttiva generalizzata. Ma è grazie a Brasse che sappiamo come tutto ciò avvenne in pratica. Basato sui racconti che l’anziano superstite rese in un programma televisivo polacco nel 2005, “The Portraitist”, e in un libro-intervista uscito anche in Italia prima della sua morte avvenuta nel 2012 quando Brasse aveva compiuto 94 anni.

La foto scelta è di quelle che Brasse scattò fuori dallo studio di posa dove fotografava i volti dei deportati. Non è particolarmente drammatica come le tante che sono presenti nei vari siti dedicati alla Shoah, ma evidenzia, in un impressionante silenzio, la forza di tante donne, tutte rasate, in fila per entrare nei forni, che si tengono per il braccio l’un l’altra per cercare un ultimo conforto.

“Il fotografo di Auschwitz”, come lui stesso ha raccontato nelle tante testimonianze offerte in tutto il mondo, non poteva rifiutarsi di immortalare tutto quello che i vari gerarchi gli ordinavano di scattare: ragazze scheletriche, corpicini insanguinati o esiti degli esperimenti eseguiti sui corpi.

Ma, piano piano, Brasse, matura la sorda, istintiva decisione di ribellarsi in qualche modo a quel male atroce verso gli innocenti, sperando presto alla caduta degli dèi con la svastica. Così decide a rischio della vita di disobbedire all’ordine dei nazisti di bruciare tutto l’archivio di foto e negativi. Nasconde la maggior parte delle sue 50.000 circa immagini nei dormitori e le fa pervenire alla Resistenza, tanto che furono recuperate dai sovietici e conservate fino ad oggi. Si calcola che delle 200.000 foto scattate ai prigionieri dai vari fotografi di Auschwitz, a essere salvate sono state proprio quelle di Brasse.

Finita la guerra, Brasse tornò a Żywiec, in Polonia, dove era nato e dove provò a riprendere il lavoro di fotografo, ma non ce la fece. Dopo aver passato anni costretto a fotografare persone che nella maggior parte dei casi sarebbero morte nelle camere a gas, si rese conto di provare una certa repulsione per l’obiettivo e di essere incapace di non pensare a tutti i visi che aveva inquadrato. Lasciò perdere la fotografia e cercò di andare oltre, aprendo un salumificio. Si sposò ed ebbe due figli che gli diedero cinque nipoti.

Fino ai suoi ultimi giorni, Brasse continuò a vivere nella sua Żywiec. In un’intervista spiegò di avere ancora una macchina fotografica Kodak risalente agli anni prima della guerra, ma non riuscì, dopo il 1945, a scattare più una foto in vita sua.

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