Non c’è spazio, nel modo in cui approcciamo alle grandi questioni della vita oggi, per l’imprevisto. Sembra quasi, anzi, che il suo solo affacciarsi al ventaglio della possibilità, la prospettiva più remota del suo verificarsi, induca quasi uno stato di terrore e di profonda insicurezza. Il tempo ci ha fatti prigionieri: attendiamo meccanicamente e metodicamente il suo realizzarsi. Ci atteniamo scrupolosamente ai programmi, suddividiamo azioni e pensieri con fare ai limiti del matematico, attribuiamo addirittura una patente di utilità agli incontri con gli altri sulla base di quanto tempo hanno richiesto alla loro realizzazione. L’errore, la deviazione, l’inversione ad U dell’ultimo istante, in quest’epoca di minuti contingentati, equivalgono ad uno spreco inaccettabile. Ma davvero si può sprecare il tempo? Davvero tuffarsi nell’avventura della singolarità, mettersi sulle tracce sbiadite dell’autenticità perduta, sforzarsi di reimparare la commovente soddisfazione della meraviglia e della sorpresa, può essere intesa come una sottrazione del nostro vivere? È questo il grande paradosso: illudersi di poter sempre essere in controllo. E, invece, non esserlo affatto. Per tale ragione, parafrasando il titolo di una grande opera filosofica, vale la pena dilettarsi in un elogio dell’imprevisto. Perché è in quel barlume di umanità che la vita si riconcilia con sé stessa. Nella faccia della luna che non si mostra mai. Nel binario parallelo su cui corrono i sogni accantonati. Nella tappa inaspettata di un lungo viaggio. Del resto, mai come quando si calzano i panni del visitatore le probabilità di imbattersi in qualcosa di inedito sono piuttosto alte. O, quantomeno, così è stato per lo scrittore transalpino Paul de Musset – fratello maggiore del più celebrato Alfred – quando, alla metà dell’800, il suo cammino ha incrociato le affascinanti sponde della nostra bella Sicilia. Per sua volontà, infatti, il canonico percorso da Grand Tour si trasformò, per sua specifica volontà, in qualcosa di diverso. In qualcosa che gli avrebbe svelato come la magia, a dispetto delle attese, non è qualcosa di segreto e inaccessibile. Ma è, semplicemente, il coraggio di dirigere lo sguardo verso ciò che ci sta più vicino.

Il soggiorno di de Musset nell’isola è da far risalire al 1843, data in cui lo scrittore iniziò a comporre i suggestivi appunti che poi sarebbero stati riordinati in un unico volumetto. Quegli appunti sono oggi leggibili grazie al lavoro di Edizioni Lussografica, che li ha riuniti sotto il titolo di Viaggio in Sicilia. L’aveva voluta fortemente, quell’isola così idealmente mitica: aveva scelto di inoltrarsi tra le sue strade, quando molti, almeno all’epoca, preferivano concludere il loro svago culturale non più a Sud di Napoli. Lo aveva fatto con curiosa testardaggine: deragliando dagli itinerari predeterminati dalle guide – a volte persino ignorandoli del tutto -, esplorando in solitudine le innumerevoli suggestioni che quella terra sconosciuta continuamente gli regalava. Sosteneva, de Musset, che fossero le persone, le loro voci e le sfumature nei loro accenti, a fare i luoghi. E che la lentezza, a volte, è sinonimo di imprevedibilità. «Detesto i consigli di queste guide italiane – annota lo scrittore – che stabiliscono l’itinerario che dovrete seguire, vi ordinano di essere a Napoli il tale giorno, a Roma il tal altro, vi indicano il momento in cui è opportuno aprire gli occhi per provare le stesse sensazioni e fare passo passo lo stesso viaggio che fanno tutti gli altri. Io per me non posso sopportare i programmi fissati in anticipo. Preferisco consacrare un mese a qualcosa che si potrebbe vedere in otto giorni e poi godere degli incontri fortuiti, anche correndo il rischio di perdermi una cosa che è considerata indispensabile. Colui che viaggia senza dare ascolto ai consigli di chicchessia sentirà in Italia un certo profumo d’avventura che gli farà apprezzare i più piccoli imprevisti e inoltre s’imbatterà davvero in molte cose belle che guide e ciceroni ignorano completamente».

Una regola valida tanto più per la Sicilia. Agli occhi di de Musset, le bellezze isolane si mescolano al chiacchiericcio indiscreto degli osti, al biascicare del carrettiere che con poche, incomprensibili emissioni sonore chiede al mulo in briglie di fare inerpicare un carretto su trazzere dissestate. Ai sapori che impregnano l’aria e all’onnipresenza del mare. Ma anche ai lamenti affaticati dei popolani e degli umili lavoratori, alle campagne deserte dove il lavoro langue e l’agricoltura è questione di sopravvivenza. Contraltare speculare alla ricchezza di chi, come lui, la Sicilia poteva permettersi di osservarla come ospite e non come figlio amareggiato. Per questo, forse, egli si spinge a dichiarare empaticamente: «La Sicilia ha la struttura ideale per essere una terra popolosa, felice e desiderata. È una terra promessa. I colori della stessa Italia sono sbiaditi e la Francia sembra cristallizzata in fondo a una ghiacciaia».

E terra promessa, la Sicilia, continua ad esserlo. Promessa, in primo luogo, a sé stessa. Mai del tutto compiuta, fragile. Ma sempre illuminata da un continuo senso di scoperta. Da angoli, incroci, sentieri che devono ancora essere battuti. Dallo stesso, ineffabile brulicare che de Musset portò con sé nel ritorno in Francia.

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