In nessun altro luogo, con la forza e la frequenza che contraddistinguono la Sicilia, la precarietà è una condizione così presente e insormontabile da risultare pressoché genetica. È un motivo stridente di sottofondo. O, per dirla con linguaggio matematico, una costante che prima o poi ti presenterà il conto. A volte, la precarietà, si camufferà dietro la veemenza squassante di un sisma. Altre volte, piuttosto scenograficamente, imbraccerà il suo inarrestabile mantello di fiamme. Lo stesso che ha annerito con la sua cappa di distruzione gli ultimi terribili, surreali giorni isolani. Che ha inghiottito il futuro di tanti siciliani. Che ha tramutato in cenere dimore storiche, preziosi scorci naturali, ulivi millenari. È quasi un rito di passaggio, quello del fuoco. Come se la nostra terra bella e sventurata avesse periodicamente bisogno di farsi del male, di guardarsi allo specchio e ritrovarsi misera, abbandonata, trafitta dalla sua stessa, cronica impotenza. Dal travaglio di una volontà che sembra non bastare mai del tutto a sé stessa. Perché la Sicilia e la dimensione del disastro sono un po’ come Sisifo e la sua pietra: si inseguono da sempre. L’uno il fardello dell’altra. Lo notava già, a metà XIX secolo, Alessio Narbone, coltissimo storico originario di Caltagirone e autore di alcune apprezzatissime opere di erudizione, ripercorrendo le vicissitudini geopolitiche dell’isola. Spesso, infatti, il suo instancabile impegno da ricercatore si scontrò con un’oggettiva carenza di fonti e documenti riconducibile proprio alle più disparate e traumatiche cause. E, in uno dei suoi più celebri trattati, a fare capolino, ieri come oggi, sono proprio le sciagure dei siciliani di oggi: incendi, incuria, malaffare.

Avventurandosi nella sua monumentale Istoria della letteratura siciliana – composta tra il 1852 e il 1859 su un totale di 12 volumi – emerge come Narbone, a più riprese, si crucciasse di essersi trovato dinanzi ad archivi storici e diplomatici decisamente lacunosi, se non irrimediabilmente incompleti. Mancavano all’appello, insomma, veri e propri frammenti di memoria e di identità. Eloquente, in tal senso, un passaggio presente nel volume 9, nel quale l’intellettuale, intento a risalire fino alle vicende del XIV secolo, e in particolare al difficile passaggio di consegne tra Svevi e Angioini, addebitava con precisione le responsabilità di tali salti temporali: «I diplomi contenuti in questi pubblici archivi – scrive il calatino – non attingono l’epoca che abbiam tra le mani. Cagioni di questo vuoto furono varie. E prima, lo strazio che furono gli Angioini de’ documenti relativi all’antecedente da loro odiata dinastia, di cui tentarono perfino obliterar la memoria. Dipoi, i diversi incendi accaduti a differenti età che ridussero in cenere tante preziose memorie. Oltre a questo, la incuria di que’ che dovevano custodirli; la rapacità di quegli altri che ne carpirono i pezzi migliori; i traslocamenti di esse carte da una ad altra officina, per cui tante se ne smarrirono; e finalmente l’essere state tante altre da’ vicerè richiamate quali a Napoli, quali in Ispagna, spogliando così la Sicilia de’ più antichi e pregevoli monumenti». Con una certa tristezza, oltretutto, lo studioso sottolineava quali fossero state le città maggiormente colpite dalla furia dei roghi: vale a dire Catania, Messina e Palermo. Leggerle oggi equivale quasi a tuffarsi tra le pieghe di un beffardo déjà-vu. Perfino lo stesso Narbone venne, sul finire dei suoi giorni, irriso dal destino. Proprio lui, che si era erto a sacro protettore del sapere in Sicilia, che aveva salvato dall’oblio innumerevoli testi, si vide privato di gran parte degli sforzi di una vita. Dopo l’espulsione da Palermo dei Gesuiti nel 1860, rimase per un breve periodo nel capoluogo siciliano a causa di problemi di salute. Quel tanto che bastò per assistere allo scempio dei contingenti garibaldini, i quali saccheggiarono e distrussero gran parte dei manoscritti che il nostro conterraneo aveva collezionato per tramandarli ai posteri. Fu un vero affronto, che Narbone non riuscì a sostenere. Nel dicembre dello stesso anno si spense, affranto.

Il suo cuore, come quello dell’intera Sicilia, era stato, una volta di più, bruciato. E anche il nostro, dietro le finestre appannate da un fumo lontano, con l’aria carbonizzata ancora tra le narici, sanguina. Sicuri che, in un modo o nell’altro, la nostra terra, quelle ceneri, saprà scrollarsele ancora di dosso. Sicuri anche che, prima o poi, saremo di nuovo qui a parlarne. A sospingere la pietra di Sisifo.

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