Possedere il risultato dei nostri sforzi o essere posseduti dall’ossessione di raggiungerlo? È tra questi due estremi che si stende in tutto il suo dinamismo il sottilissimo filo della vita umana. Un filo che non vorremmo mai vedere spezzato, interrotto, reciso dall’impronosticabilità degli eventi. Perché l’uomo non conosce alcuna forma di appagamento: la stasi della riflessione lo pietrifica al punto da fiaccarne ogni vitalità, mentre la caccia furente a qualcosa che lo soddisfi non trova esaurimento, perché ogni traguardo è subito oscurato dal miraggio del successivo, più seducente e ambizioso. E quando la frenesia di questa dinamica è negata da cause di forza maggiore, sopraggiunge nel suo cuore un profondo sconforto, la sensazione di aver subito l’ingiustizia suprema: essere stato separato dalla meta della sua corsa. Ma noi non siamo le cose che possediamo, a maggior ragione se queste finiscono per diventare un buco nero che inghiotte ciò che rimane della nostra vita. Il desiderio di realizzare sé stessi non può coincidere con l’ostinata incuria che manifestiamo verso la nostra serenità. Giovanni Verga ha fotografato con la consueta maestria questa pericolosa attitudine umana, scolpendola nelle fattezze del parvenu Mazzarò, la cui scalata sociale si conclude drammaticamente. Dimostrando che la prima fonte di paura non è il mutamento del mondo esterno, ma la nostra incapacità di adattarci ad esso.

Il protagonista della celebre novella La roba ci viene presentato come uno scaltro uomo di mondo, partito come umile bracciante e divenuto, dopo anni di sacrifici, barone e proprietario di appezzamenti di terra dalla vastità indecifrabile, tanto da sembrare, agli occhi del paese, che ogni cosa appartenga al suo dominio. Ma il suo desiderio di arricchimento è tutt’altro che scemato: non solo egli finisce per trattare i suoi sottoposti alla stregua dello stesso regime schiavile che aveva subito sulla sua pelle, ma si mostra anche biecamente avaro e crudelmente superbo, a tal punto da voler assurgere allo stato di re. Ma perfino un sovrano non può eludere il confronto finale, ovvero quello col tempo: la sopraggiunta vecchiaia lo getta in una irreparabile disperazione, spingendolo ad un delirio sconclusionato che muove a compassione il lettore. Così Verga, nel finale della novella, racconta gli ultimi istanti di Mazzarò: «Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è un’ingiustizia di Dio, che dopo essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla!». E ancora: «Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi d bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me!». Nell’inseguire l’incubo della roba, Mazzarò non ha sacrificato soltanto il suo corpo martoriato dalla fatica, ma persino la sua stessa umanità. Ha creduto di poter posticipare la sosta salutare della sua vita ad un momento che, invece, non arriverà mai. Il suo gesto disperato non mostra solo l’immaturità di un benestante che non vuole rinunciare al suo patrimonio, ma anche la fragilità di un uomo che ha smembrato sé stesso nei frammenti materiali acquisiti senza preservare l’essenza dei suoi sentimenti. L’esempio di Mazzarò non è una fiaba per bambini, un racconto circoscritto alla sua epoca e malato di inattualità: è un messaggio forte e chiaro diretto ai giorni nostri. Dove sentiamo di aver perso tutto quello che abbiamo costruito.

Ma è davvero così? L’epidemia che ci ha confinato a casa ci ha privato della possibilità di ripartire? Siamo destinati, come Mazzarò, a specchiarci nelle macerie della nostra vita rimpiangendo i momenti in cui scalavamo le alture della realtà spellandoci le mani? No. Perché, a differenza del personaggio verghiano, siamo ancora in tempo per curare la nostra anima. Per dare alle cose il giusto peso, per metterle, per quanto importanti possano esserle, su un piano subordinato alla vera esigenza che si presenta in questi momenti: imparare a vivere oltre la privazione. Il Coronavirus rappresenta una tragedia con pochi precedenti: ma dietro ogni nube di disperazione c’è sempre una possibilità da afferrare, un’occasione di ripensare il nostro rapporto col mondo e con le cose che ci consumano. Non abbiamo scelta, stavolta: dobbiamo accettare la stasi. Se sapremo farlo con lo spirito rinnovato di chi non rimpiange il passato ma pone le basi per un futuro dove i bisogni dell’uomo non si limitino all’immediatezza del guadagno, allora avremo fatto tesoro dell’esempio di Mazzarò. E solo a quel punto potremo sperare in una rinascita che non sia, appena, economica.

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