Un “Erasmus della legalità”, che allontana bambini ed adolescenti da un modello educativo mafioso. La sfida di Roberto Di Bella, Presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]N[/dropcap]egli ultimi 25 anni il Tribunale per minori di Reggio Calabria ha trattato più di 100 procedimenti per reati di criminalità organizzata, figure di stampo mafioso e spaccio di stupefacenti e più di 50 per omicidi, tutti contestati a minorenni appartenenti alle storiche famiglie di ‘Ndrangheta operanti nel territorio. Tribunale e Uffici giudiziari minorili hanno processato minori coinvolti nel sequestro di persona a scopo di estorsione, ragazzi usati come vivandieri da latitanti anche all’estero, altri coinvolti in traffici di sostanze stupefacenti per conto dei genitori in carcere o implicati a pieno titolo nelle faide locali, talvolta anche con il titolo di sicari». È questo l’impietoso quadro descritto dal magistrato Roberto Di Bella, Presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, intervenuto al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania in occasione del convegno “I diritti dei più fragili”. Un quadro emerso dalla sua lunga esperienza professionale nel Tribunale dei minori e nel confronto quotidiano con episodi gravissimi che, secondo il magistrato, avrebbero destato maggiore allarme e attenzione se fossero accaduti altrove.

«Le storiche famiglie di ‘Ndrangheta mantengono il loro potere sugli stessi territori attraverso l’indottrinamento dei figli minorenni, ragazzi che respirano odio, sono abituati a l’uso della violenza sin da piccoli»

INDOTTRINAMENTO MAFIOSO E RESPONSABILITÀ GENITORIALE. Il tempo sembra scorrere invano nelle aule del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, dove oggi si condannano i figli di chi vi era comparso 20 o 30 anni fa, tutti con gli stessi cognomi, tutti con lo stesso destino. «Questo dato – prosegue Di Bella-  rappresenta l’amara conferma che la cultura mafiosa si eredita all’interno della famiglia. Le storiche famiglie di ‘Ndrangheta mantengono il loro potere sugli stessi territori attraverso l’indottrinamenti dei figli minorenni, ragazzi che respirano odio, sono abituati a l’uso della violenza sin da piccoli, anche nei confronti dei familiari più stretti nei casi in cui questi trasgrediscano le regole d’onore. In più occasioni abbiamo assistito all’orrore di adolescenti coinvolti nella scomparsa delle loro madri, colpevoli di non aver saputo aspettare i mariti detenuti in carcere o latitanti. È una drammatica sequela a cui noi giudici siamo abituati perché abbiamo visto sfilare tanti giovani che potevano aspirare ad un lavoro diverso da quello loro riservato dalla famiglia». Un’educazione violenta che mina l’integrità psicofisica ed emotiva dei “figli di ‘ndrangheta”, come dimostrano i report psicologici che evidenziano in questi giovani la rassegnazione al carcere o ad una morte prematura, un forte senso di angoscia per sé e per i propri cari, sogni popolati da incubi, come le irruzioni notturne di carabinieri per arrestare i parenti o scene di guerra che li costringono ad attivarsi per salvaguardare la propria famiglia.

«Dal 2012 stiamo adottando delle leggi civili di decadenza della responsabilità genitoriale. Misure che nei casi estremi hanno comportato anche l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare e il loro inserimento fuori da Reggio Calabria»

ALLONTANARSI PER RITROVARSI. «Dal 2012, con l’obiettivo di interrompere questa spirale perversa- spiega Di Bella -, stiamo adottando delle leggi civili di decadenza della responsabilità genitoriale. Misure che nei casi estremi hanno comportato anche l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare e il loro inserimento fuori da Reggio Calabria». Misure che hanno attirato sul Tribunale calabrese numerose critiche, nate però da una sostanziale ignoranza del contesto in cui sono attuate. «Il trasferimento in comunità o case-famiglia, non ultime quelle gestite da volontari antimafia, si prefigge un duplice obiettivo: assicurare adeguate tutele e una regolare crescita psico-fisica agli sfortunati ragazzi delle ‘Ndrine, ripristinando le condizioni originali di svantaggio e garantendo loro la possibilità di sperimentare orizzonti culturali, sociali, psicologici e, perché no, affettivi, diversi da quelli del contesto di provenienza, dotandoli degli strumenti culturali necessari per renderli liberi di scegliere e potersi staccare dalle orme parentali». I risultati sono anch’essi duplici: da una parte i giovani allontanati dal background di provenienza riprendono gli studi, svolgono attività di pubblica utilità e danno libero estro a quella creatività e quei sogni fino ad allora compressi dalla famiglia, dall’altra le istituzioni si trasformano da nemiche ad ultimi approdi di speranza e legalità, soprattutto per le madri che decidono di salvaguardare il futuro dei propri figli. «Dietro l’orgoglio dell’appartenenza alla famiglia e del cognome si cela sempre una realtà ben più triste e inconfessabile: la rigidità della struttura familiare opprime la formazione di una coscienza individuale, abbandona i ragazzi ad una profonda solitudine emotiva».

«La giustizia minorile ha potenzialità enormi, ma deve essere messa nelle condizioni di sfruttarle». Nasce così il progetto di un’equipe specializzata che accompagni passo dopo passo questi ragazzi sino al raggiungimento dell’autonomia esistenziale e lavorativa

IL PROGETTO “LIBERI DI SCEGLIERE”. «Ovviamente – confessa il magistrato – emergono anche delle criticità. Il territorio è povero, più della metà dei comuni è sprovvista di servizi sociali, non ci sono abbastanza consultori, né adeguata formazione e c’è una gran paura. Per ovviare a tutto questo, sulla base della prassi sviluppata con Libera, abbiamo presentato un progetto al Dipartimento di giustizia minorile che abbiamo chiamato “Liberi di scegliere”». L’intento del progetto è creare un’equipe specializzata che accompagni passo dopo passo questi ragazzi sino al raggiungimento dell’autonomia esistenziale e lavorativa. «La giustizia minorile ha potenzialità enormi nella prevenzione del disagio minorile e nel contrasto ai sistemi criminali strutturati su base familiare o territoriale, ma deve essere messa nelle condizioni di esprimere questa potenzialità. È chiaro d’altra parte che il problema della relazione tra minori e criminalità organizzata non può essere risolto solo dai tribunali. È necessario un potenziamento delle risorse destinate alle politiche sociali di prevenzione, attualmente inadeguate e sottoposte a logiche di tipo aziendale». Perché è nell’attenzione che le istituzioni di un Paese rivolgono ai problemi delle nuove generazioni che si stabilisce il livello di civiltà di una società e le sue potenzialità in termini di crescita culturale.

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