Kheit Abdelhafid, presidente delle comunità islamiche di Sicilia: «Su Il Giornale un titolo non veritiero. Un singolo articolo non può oscurare ciò che abbiamo fatto in questi anni»

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]L[/dropcap]a Sicilia, durante la sua storia, è riuscita ad essere un esempio di convivenza e incontro di culture diverse e secondo me ha tutte le caratteristiche per esserlo ancora oggi». A sostenerlo è Kheit Abdelhafid, Imam della moschea di Catania. La sua è un’analisi, ma anche l’indicazione di un compito e un augurio che arriva in un momento storico particolare, nel quale tante forze, politiche ed intellettuali, si adoperano per creare divisioni e sospetti, indirizzando il disagio e la rabbia di tanti verso un nemico comune. Nel dibattito quotidiano “migrante”, “musulmano” e “terrorista” vengono usati spesso usati come sinonimi. Recentemente, Il Giornale ha messo in atto proprio questa strategia. Migranti, la minaccia dell’imam: “Ci saranno delle conseguenze” titolava qualche giorno fa “Il Giornale” attaccando proprio Abdelhafid. Un titolo confezionato ad arte ma nulla di più.

 LA REAZIONE. «Ho scelto di non replicare» ci ha detto in proposito. Un atteggiamento calmo, radicato nella sicurezza che proviene da due decenni di sforzi per rendere la propria comunità parte integrante del tessuto sociale. «Non credo – continua – che un singolo articolo possa oscurare ciò che abbiamo fatto a Catania. Non sono solo parole: noi ci crediamo fermamente e rappresentiamo un esempio virtuoso». Un lavoro, quello coordinato da Abdelhafid, che si orienta in molteplici direzioni: dalla formazione teologica e culturale degli Imam, al dialogo ininterrotto con le istituzioni sia civili che religiose. «Abbiamo ottimi rapporti con la curia – prosegue – e pure il canale di dialogo anche con la nuova amministrazione comunale è già aperto. Da tempo lavoriamo anche con operatori del terzo settore come la Caritas, la Comunità di Sant’Egidio, il Banco Alimentare. Con quest’ultimo forniamo assistenza agli abitanti del quartiere Civita, che per il 95% sono cristiani». La mediazione e il dialogo sono, peraltro, attitudini molto radicate in una comunità piuttosto eterogenera. «Dal punto di vista religioso – continua Abdelhafid – convivono le scuole Hanafita, Malikita, Shafi’ta e Hanbalita. Etnicamente vi sono rappresentanze nordafricane, sub-sahariane e balcaniche, ma anche mediorientali, pachistane e mauriziane». A fare da collante è l’idea che le somiglianze siano più forti delle differenze.

L’IMPORTANZA DELLA COMUNICAZIONE. Ma com’è possibile che l’Islam sia oggi spesso associato alla guerra e al conflitto? Fermo restando che, come ci spiega ancora l’Imam, la parola jihad ha in arabo ha più di settanta significati, di cui solo uno legato al conflitto armato, spesso la responsabilità starebbe in una comunicazione inefficace o incompleta. «Perfino alcuni scrittori musulmani, raccontando la vita di Maometto, si sono concentrati solamente sulle battaglie che ha combattuto, trascurando invece altri aspetti della sua vita, come l’essere stato uno sposo e un padre esemplare. Non si può semplificare così la storia dell’Islam». Ciò vuol dire che l’Isis, che basa la sua propaganda su un’errata associazione Islam-Violenza, si colloca «fuori dal pensiero islamico». L’organizzazione, inoltre, inneggia a una contrapposizione tra cristiani e musulmani che non trova spazio nel Corano, in cui, invece, «è scritto che i cristiani sono i più vicini ai musulmani».
Quali sono i passi da compiere, dunque? «D’integrazione – chiosa l’Imam – si è parlato molto, ma non si è fatto abbastanza. Un’apertura da ambo le parti è necessaria, ma per fortuna gli uomini di buona volontà non mancano e sebbene i risultati non dipendano solo da noi, come credenti saremo giudicati per ciò che abbiamo fatto».

 

 

 

 

 

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