È venerdì mattina e la linea M3 della Metropolitana di Milano è piena come sempre. Gente che corre perché in ritardo al lavoro o per mera consuetudine, turisti confusi che si recano in centro con giganteschi zaini sulle spalle e gli smartphone in mano per cercare di capire a quale fermata scendere. Nella mia vita non riesco a ricordare in modo diverso questa città, che non amo particolarmente, ma che pure ritengo l’unica metropoli europea del bel Paese. Ho un appuntamento alle 11:00, ma ho oltre un’ora e mezza di tempo per arrivare e sono tranquillo. Mi guardo intorno, il grande display mostra che il mio treno arriverà tra pochi minuti. A un certo punto dagli altoparlanti una voce annuncia un disagio sulla linea M1. Con lo stesso tono impersonale e freddo con cui ci ha appena parlato della sospensione della circolazione dei treni, la voce sopra di noi motiva cosa la ha causata: una persona si trova sui binari in attesa di soccorso. Inevitabilmente la mente mi porta a pensare al peggio: cerco conforto, o forse solo un confronto, negli sguardi degli altri viaggiatori. Non sono mai stato bravo a tradire le emozioni, quello che provo si legge facilmente sul mio volto e qualcuno, isolato dalle sue cuffiette con “cancellazione del rumore”, si sarà probabilmente chiesto il perché della mia faccia sconvolta. Mi chiedo: una vita che si spegne sui binari può davvero essere un “rumore di fondo” da cancellare?

Provo a parlare con qualche passante. «Capita sempre più spesso», commenta laconica una signora di mezz’età. Ha l’aspetto curato, ma gli occhi sono tristi, anestetizzati dalla routine che evidentemente vive ogni giorno. Qualcuno invece si lamenta dei ritardi, come se fossero davvero il problema principale in quel frangente. Salgo sul mio treno, arrivo alla mia fermata ed esco all’aria aperta. La giornata è limpida, il cielo azzurro e nell’aria volteggiano i pappi dei pioppi, sembra quasi che stia nevicando. Mentre sto per arrivare all’appuntamento in un importante edificio del centro, ai margini di via Monte Napoleone, passo accanto a un clochard: cerco una moneta, la trovo e nel frattempo il mio cellulare vibra. Un’Ansa mi conferma quello che temevo: una donna di 50 anni si è lanciata sui binari all’arrivo di un convoglio riportando gravissime ferite. Con dovizia di cronaca l’agenzia aggiunge che «Secondo quanto riferito dalla Polizia locale, sul gesto volontario, ripreso dalle telecamere di videosorveglianza, non vi sarebbero dubbi». Penso a quanto possano essere raccapriccianti quelle immagini, ma non ho più tempo: sono relatore a un evento che inizierà da lì a pochi minuti.

Mentre mi chiedo quanto possa essere ossimorica la società in cui vivo, sottolineo nella mia lezione la responsabilità sociale dei consulenti bancari: «Il vostro lavoro serve a far star bene le persone, perché dalla loro stabilità finanziaria deriva anche parte della loro serenità»

Da circa un mese e mezzo per lavoro sto tenendo un ciclo di conferenze promosse da un grosso gruppo bancario-assicurativo: Roma, Genova, Cuneo, Torino, Napoli, Bergamo, Milano… Ogni giorno una città nuova, un altro palazzo elegante, molte cravatte, catering, “light lunch”, aperitivi. Le mie platee sono fatte di bancari, che qualcuno potrebbe definire come una categoria di persone distaccate e calcolatrici. Eppure nel mio talk parlo di comunicazione, di empatia, e anche del prendersi cura degli altri. Così, mentre nella mia mente continuo a ripensare all’infelice Anna Karenina protagonista dell’insano gesto della mattina e a chiedermi quanto possa essere ossimorica la società in cui vivo, mi ritrovo a un punto della mia lezione in cui solitamente sottolineo la responsabilità sociale dei consulenti bancari. «In definitiva – dico loro – il vostro lavoro serve a far star bene le persone, perché dalla loro stabilità finanziaria deriva anche parte della loro serenità». Conclusa la conferenza, uno di loro si avvicina, sorride e mi ringrazia per aver sottolineato il “vero senso del suo lavoro”. Già, forse la chiave di tutto sta davvero lì: nel dare un senso alle azioni che facciamo e, soprattutto, alle nostre scelte. Qualche settimana fa al Festival del Giornalismo di Perugia il sociologo Derrick de Kerckhove ci spiegava come il contesto storico che stiamo vivendo sia intriso di una crisi epistemologica: ovvero una perdita di senso. Non è vero solo nel giornalismo, ma si estende al modo in cui ci relazioniamo agli altri.

Un cancro ancestrale l’indifferenza verso il prossimo, che spesso viene risvegliato dai nostri istinti peggiori? Forse, ma è possibile che esista una cura, e che questa passi dal guardare alle piccole cose

Sarà colpa di internet, dei social media e degli smartphone?, mi domando nel weekend. O è qualcosa di più atavico, quasi innato nell’animo umano, un qualcosa che se incontrollato ci spinge verso un baratro d’indifferenza? Una risposta mi arriva domenica mattina da un articolo pubblicato sul giornale che dirigo. Il titolo è: Morire da fantasma nel centro di una metropoli: Verga e la condanna di “L’ultima giornata e fa parte della rubrica “Sicilitudine” curata da Joshua Nicolosi. Non conoscevo la novella di Verga di cui parla, ma scopro che nel 1883 lo scrittore siciliano raccontava la storia di un clochard che si accascia al suolo alla stazione ferroviaria di Milano nella totale insensibilità del mondo circostante. Nel suo articolo il collega definisce questa come la storia di come abbiamo iniziato ad essere l’uno lo straniero dell’altro. Non credo alle casualità, e sebbene non avessimo avuto modo di parlarci in questi giorni non mi meraviglia che la sua sensibilità si sia soffermata su un argomento del genere. Un cancro ancestrale dunque l’indifferenza verso il prossimo, che spesso viene risvegliato dai nostri istinti peggiori? Forse, ma è possibile che esista una cura, e che questa passi dal guardare alle piccole cose. All’impatto delle nostre scelte, che anche quando può apparire minimo, può fare la differenza nel farci ritrovare il senso e magari ricordarci che non lo abbiamo mai perduto.

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