Vino, focacce da spizzicare, amici e musica di sottofondo: no, non stiamo gustando un aperitivo in una terrazza della movida torinese ma siamo nell’Atene arcaica (VIII-V secolo a. C.) quando trionfa la moda del sympòsion, la seconda fase della cena, quella dedicata al consumo del vino accompagnato da qualche pietanza e suoni di aulòs. L’estate è per eccellenza la stagione degli aperitivi: che si chiamino happy hour o apericena, l’idea è di ritrovarsi insieme davanti a un drink gustando qualcosa di sfizioso in un ambiente stimolante ma allo stesso tempo confidenziale. Aperitivus in latino significa «che apre» ed effettivamente la sua funzione è quella di stimolare l’appetito ma anche di aprire, in un certo senso, un discorso. Se pare sia stato il medico greco Ippocrate a inventare nel V secolo a. C. una sorta di antenato dello Spritz, il vinum hippocraticum, per alleviare l’inappetenza dei suoi pazienti, la pratica del condividere un momento di svago con un calice in mano sembra avere il suo antenato nel simposio, con la differenza che il primo nasce per essere consumato prima di cena o di pranzo, il secondo concludeva il banchetto, anche se di fatto ne era il cuore. In realtà oggi l’aperitivo sostituisce spesso il pasto portante per l’abbondanza delle portate e per la modalità dell’incontro che lo presta a ogni occasione (il simposio stesso veniva allestito per varie circostanze), cosicché non sembra peregrino un confronto con il momento di convivialità per eccellenza degli antichi greci. Da dove deriverebbe questa somiglianza?

LA FUNZIONE SOCIALE DEL VINO. A suggerircelo è lo stesso significato della parola greca sympòsion, «bere insieme». Infatti al centro sia dell’aperitivo che del simposio sta un consumo ben definito dell’alcool (anche se il nostro aperitivo prevede pure analcolici). I greci hanno riconosciuto per primi la funzione sociale del vino, cura di tutti i mali, fisici e sociali, a tal punto da legarlo a una divinità, Dioniso, dio dell’ebrezza. Ma l’ebrezza ha forse senso in solitudine? Il vino non nasce per essere bevuto in solitaria o fra anguste situazioni di vita domestica: il suo uso è ritualizzato in momenti di comunità, per questo i greci si vantavano di consumarlo diluito con acqua a differenza dei barbari che lo bevevano puro e in eccesso. Il simposiarca, scelto fra i conviviali, si occupava della miscela, un po’ come i nostri barman che dosano ghiaccio e acqua tonica, mentre i corrispettivi dei nostri finger food mitigavano le sbornie. Il vino così condiviso favoriva il dialogo e il senso di appartenenza al gruppo e del gruppo alla comunità. Tutto nell’antica Grecia era in funzione della collettività, come si evinceva fin dalla disposizione nella sala del banchetto (andròn) dei letti su cui si mangiava e beveva (klínai): ognuno doveva sentire e vedere l’altro in un discorso sempre corale, ma in cui si prendeva ordinatamente la parola. In questo contesto tutto ruotava intorno alla fiducia che regolava l’invito al convivio nonché il legame fra i conviviali oltre la mera sfera privata. E poi, soltanto persone fidate potevano ascoltare quello che lingue sciolte dall’alcool svisceravano. Insomma, ciò succedeva nel simposio restava nel simposio. E cosa poteva succedere?

L’ARTE DELL’INTRATTENIMENTO. La combo musica dal vivo e apericena sembrerebbe un retaggio dei simposi che non erano soltanto momenti di confronto intellettuale fra uomini liberi. Grande cura era riservata al divertimento e all’esplorazione dell’eros. Si andava dai suonatori di aulòs e bàrbiton che accompagnavano componimenti poetici, a ballerine, mimi e acrobati che non di rado finivano nei klínai dei conviviali. Esistevano poi giochi appositi come il kòttabos (pare di origini siciliane) consistente nel lancio dei fondi del vino della coppa contro un bersaglio e, in un mondo come quello ateniese amante delle competizioni, non mancavano indovinelli, dispute filosofiche e gare di bevute, una violazione della moderazione ma parte integrante del rito e dunque funzione dell’ordine sociale. Gli skyphos si alzavano per un altro giro e la polis sembrava tutta loro. Insomma, gli antichi greci sapevano come divertirsi. Ed è in questo clima di euforia che si potevano giurare imprese comuni, come congiure, e compiere trasgressioni, come urinare per strada, che rafforzavano la complicità. Così, finito il simposio, la festa continuava con il kòmos, il corteo di ubriachi che andavano in giro ornati di ghirlande cantando e ballando seminudi per la dubbia felicità dei passanti.

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