«La pandemia ha fatto emergere tutti i limiti di una strategia politico-economica che negli ultimi anni ha portato non solo a un allargamento del divario Nord – Sud, ma anche a un indebolimento complessivo del Paese. Oggi ci troviamo di fronte ad alcune opportunità da cogliere, come il Recovery Fund e il fatto che l’Europa abbia deciso di investire con risorse proprie sulla ripartenza delle aree più deboli, tuttavia si tratta solamente di condizioni iniziali. Sta a noi capire come coglierle. Il punto nodale di questo documento è che propone il Mezzogiorno come soluzione per il rilancio del Paese, non come atavico problema da risolvere». A parlare è Luca Bianchi, economista e direttore Svimez, tra i firmatari del documento “Ricostruire l’Italia. Con il Sud”: 14 punti, promossi da 29 esperti per individuare il ruolo del Mezzogiorno nella ricostruzione del Paese dopo l’emergenza Covid-19 e autore (insieme ad Antonio Fraschilla) del volume “Divario di cittadinanza”, recentemente pubblicato da Rubbettino editore.

Direttore, perché si parla oggi di una “nuova” questione meridionale?
«Il fatto è che, nel corso degli ultimi quindici anni, l’arretramento del ruolo dello Stato e la riduzione della spesa pubblica complessiva per alcuni servizi hanno ampliato i divari all’interno del Paese e fatto sì che venissero indeboliti i diritti di cittadinanza, soprattutto nel Mezzogiorno. Facciamo un esempio: a fronte di una richiesta delle famiglie – omogenea in tutto il paese – di far frequentare ai propri figli il tempo pieno alle elementari, la possibilità che ciò si realizzi è molto diversa a seconda delle latitudini. In altre parole: se a Milano il 90% dei bambini ha il tempo pieno a Palermo la percentuale scende al 4,5%. Le conseguenze sono drammatiche perché, come dimostrano le ricerche OCSE, stare meno a scuola si lega direttamente a esiti più bassi nei test Invalsi. Perciò, quando si dice che gli indicatori dimostrano che i bambini del Sud sono meno preparati di quelli del Nord, in realtà non vuol dire che siano meno brillanti, ma che la minore offerta di servizi scolastici e la riduzione di ore trascorse nelle classi incidono sulle competenze acquisite».

«È fondamentale evitare utilizzi troppo settoriali dei fondi europei, a causa di ciò spesso le risorse sono state sono state disperse sul territorio senza impattare veramente sullo sviluppo».

Da dove ripartire, quindi? E che opinione ha riguardo alle misure introdotte dal governo, come la fiscalità di vantaggio per le regioni del Meridione?
«Come dicevo crediamo sia necessario garantire in tutto il Paese l’equiparazione dei diritti. Senz’altro, rispetto a una lunga fase di inazione che ha accompagnato tutta la seconda Repubblica, il cambiamento di approccio si percepisce e si vedono i primi segnali. Tuttavia, la fiscalità di vantaggio sarà una vera chance solo se affiancata a una forte accelerazione negli investimenti – pubblici e privati – nel Mezzogiorno. Nel caso opposto sarebbe soltanto una riduzione di costo per le imprese, senza un impatto positivo sull’occupazione».

La vera chiave di volta potrebbe essere dunque l’utilizzo del Recovery Fund?
«Sì, a patto che vengano fatte delle scelte strategiche basate sui fabbisogni del Paese e che ci sia la capacità di presentare progetti immediatamente cantierabili. A oggi ci sono ancora molte barriere. Tutte le tecno-strutture a supporto delle politiche di sviluppo si sono indebolite. Quali sono, ad esempio, le competenze e il ruolo dell’agenzia di coesione territoriale? Negli ultimi quindici anni la costruzione pletorica dei fondi europei e l’iper-burocratizzazione hanno sfavorito l’investimento reale sul territorio».

Luca Bianchi

La gestione dei fondi europei dovrebbe essere centralizzata o delegata alle regioni?
«Come abbiamo chiesto nel documento comune, sarebbe necessaria una guida di carattere centrale sul piano dell’identificazione delle priorità e su quello della standardizzazione delle procedure. Dopodiché quello attuativo potrebbe essere delegato ai comuni, che poi sono le istituzioni appaltanti più importanti, soprattutto quando parliamo di infrastrutture sociali. È tuttavia fondamentale evitare utilizzi troppo settoriali, i quali spesso hanno caratterizzato la destinazione dei fondi europei, col risultato che le risorse sono state disperse sul territorio senza impattare veramente sullo sviluppo».

Oggi si parla sempre più spesso di “south working”, ovvero dell’idea per un professionista di poter lavorare da remoto, magari da una spiaggia siciliana. Può essere questa un’opportunità per il Sud?
«Potrà esserlo se sapremo coglierla in una logica di agglomerazione di intelligenze e competenze. Il digitale consente di raggiungere in maniera agile territori che sarebbe costosissimo collegare con le infrastrutture tradizionali, ma questo da solo non basta. Affinché il Sud diventi davvero attrattivo per le imprese digitali sono necessarie politiche di investimento, agevolazioni fiscali e una riduzione dei costi di connessione nelle aree del Mezzogiorno. Si tratta di una sfida rivolta soprattutto alle amministrazioni locali perché il tema non è tanto quello del singolo dirigente che si va a collocare in Sicilia, dove può godere di una qualità della vita superiore che altrove, quanto quello di costruire aree di di co-working che consentano ai lavoratori la condivisione delle esperienze, dalle quali potrebbero poi nascere nuove startup e imprese».

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