Siamo in grado di comprendere il valore delle cose soltanto quando le abbiamo perse. O quando siamo in procinto di farlo. Sembra quasi una condanna, questo motto per certi versi divenuto ormai popolare. Sembra quasi la constatazione laconica di un destino che appartiene agli uomini più di quanto questi siano in grado – o disposti – a vedere. Come se fosse genetica, strutturale, la miopia con la quale essi si lasciano attraversare dagli eventi senza battere ciglio. Fa il paio, questo sintetica massima sapienziale, con una celebre considerazione di Fernando Pessoa, il quale, rivolgendosi ad Adolfo Casais Montero, scriveva: «Il valore delle cose non sta nel tempo in cui esse durano ma nell’intensità con cui vengono vissute. Per questo esistono momenti indimenticabili, cose inspiegabili e persone incomparabili». Ma allora perché finiamo per essere estranei alla nostra stessa vita? Perché ci accorgiamo di viverla, degli sprechi che abbiamo perpetrato ai suoi danni, solo quando le tragedie – personali e altrui – vengono a destarci dal torpore silenzioso che ci avvolge? Perché, insomma, ci ricordiamo del senso più profondo di umanità soltanto quando questo viene drammaticamente negato? Quando ai nostri occhi si rivela meno scontato del previsto? Forse perché trattiamo la vita come un fiore. Le passiamo accanto, come vacanzieri in gita estasiati dai loro colori e dalla loro fragranza, fino a quando il nostro goffo incedere non finisce per calpestarla. Solo allora, quando ha smesso di colorare il campo in cui è cresciuto, quando il suo deperimento è ormai irreversibile e tristemente lontano dal suo originario splendore, rimpiangiamo il tempo del profumo e della bellezza. È da riflessioni non molto distanti da questa che Luigi Pirandello si mosse quando concepì, nel 1922, il dramma L’uomo dal fiore in bocca. Un esempio di teatro quasi esistenzialista, antesignano di una certa linea surrealista e paradossale da cui attingerà, tra gli altri, Samuel Beckett. Una vicenda dai contorni onirici, eppure umanissima nel suo svolgimento e nella sua fame di risposte. Un grande mosaico di malinconie, dove temi come la malattia, l’incomunicabilità e il senso fatale di impotenza si sovrappongono senza soluzione di continuità.

Protagonista dell’intreccio pirandelliano è, infatti, un uomo condannato a morte. Un epitelioma alla bocca (metaforicamente richiamato dal fiore del titolo) lo stroncherà nel giro di pochi mesi. Il lettore, rivivendo in maniera spiazzante e narrativamente magistrale il dramma del personaggio, scopre la terribile verità in maniera repentina, quasi imprevedibile, mentre l’uomo sta chiacchierando amabilmente con un estraneo tra le sedute di un umile caffè di una stazione di provincia, nel silenzio di una notte ormai andata come il treno che il secondo uomo non è riuscito a prendere. Somiglia più ad una confessione, quel sussurro che il protagonista affida a quella bocca che tanto è arrivato ad odiare. La confessione di un cuore sgomento dinanzi a quella sorte così amara da spingerlo a cercare nei volti degli altri, nei volti mai visti di una folla senza nome, quella vita strappatagli a forza. Le sue giornate, infatti, sono ormai spese a scrutare. Ad indagare l’andirivieni degli altri: «Ah, non lasciarla mai posare per un momento l’immaginazione: – aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… – ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e quello. E sapesse quanto e come lavora! Fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire… sa quel particolare alito che cova in ogni casa? Nella sua, nella mia. Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo più, perché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego?».

Ma è vera vita, quella vissuta attraverso gli altri? O è solo un insufficiente surrogato? La reazione istintiva alla disperazione di non essere stati all’altezza di sé stessi? O, chissà ancora, un atto di pietà che ci riconcilia con il mondo? Per la creatura pirandelliana, tutte queste cose insieme: «Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua… a queste noje…a tante stupide illusioni…insulse occupazioni. Sì, sì. Questa che ora qua è una sciocchezza…questa che ora qua è una noja…e arrivo finanche a dire, questa che ora è per noi una sventura, una vera sventura…sissignori, a distanza di quattro, cinque, dieci anni, chi sa che sapore acquisterà…che gusto, queste lagrime…E la vita, perdio, al solo pensiero di perderla…specialmente quando si sa che è questione di giorni».

E quanto immensamente più insulse appaiono quelle occupazioni, i brusii lamentosi di chi non si accontenta mai, dinanzi ai drammi del nostro tempo. Ai drammi di chi la propria vita non ha mai iniziato a viverla. Si pensa sempre a come allungare la vita. Quando, invece, dovremmo interrogarci su come allargarla.

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