La grande letteratura deve saper essere scomoda, divisiva, irriverente. Ha l’obbligo di prendere posizione, di richiamare le epoche, e gli attori che le animano, alla responsabilità delle proprie azioni e di propri pensieri, di smascherarne ogni contraddizione, ogni meschinità. La letteratura è tale se non si limita ad offrire semplicemente un illusoria consolazione: spesso, ciò che lascia il segno ha l’aspetto di una scossa, di un tremore vitale, di un’accusa tagliente a noi miopi lettori. Pochi hanno saputo interpretare questo ruolo con la stessa naturalezza di Luigi Pirandello, osservatore e demolitore per eccellenza di una società fittiziamente e presuntuosamente arroccata sulle presunta certezza di essere perfetta, ma in realtà profondamente e colpevolmente infelice e soffocante. Lo scrittore di Girgenti, ribaltandole, ha svuotato di significato le dicotomie tra follia e normalità, tra assoluto e relativo, tra realtà e finzione. Il suo occhio clinico è stato addirittura profetico, tanto che nemmeno i nascenti strumenti di intrattenimento e comunicazione di massa comparsi agli albori del ‘900 sono stati risparmiati dalla corrosività delle sue intuizioni. Quello che oggi appare un dilemma del tutto contemporaneo – l’uso compulsivo e malsano dei social – è soltanto il risultato di un avvertimento inascoltato. Il materializzarsi di un timore che risale alla comparsa delle prime macchine da presa.

Era il 1925 quando Pirandello, rinominando un romanzo già edito nel 1916 con il titolo Si gira…, dava alle stampe i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, senza dubbio una delle opere più sottovalutate all’interno della sua produzione. Nella vicenda di Serafino, costretto a ritmi lavorativi forsennati e ad azioni così ripetitive da risultare alienanti («Finii d’essere Gubbio e diventai una mano» afferma il protagonista), si riflette quella di un’intera umanità soggiogata dal fascino scintillante della tecnologia e per questo incapace di scorgere la frammentazione della propria anima, risucchiata in un vortice di indifferenza e di violenza. Emblematica, in tal senso, la conclusione del romanzo: il protagonista della pellicola ripresa da Serafino deve girare una scena particolarmente cruenta, che prevede l’uccisione di una tigre. Tuttavia, in preda ad un impeto inspiegabile, l’uomo uccide Varia Nestoroff, sua collega sul set, prima di essere, a sua volta, sbranato dal feroce animale. La sequenza, per quanto drammatica, viene immortalata. Serafino, impotente, assiste allo scempio senza riuscire a proferire parola. Né in quell’occasione né mai più. Lo show, il colpo di scena, l’egocentrismo ha cancellato l’umanità dei sentimenti. Non c’è spazio per nessuna riflessione, neppure sulla ferocia della morte: ciò che conta, suggerisce Pirandello, è il grado di spettacolarizzazione che viene conferito all’evento. Tutto si riduce ad una corsa cieca, dove è vietato – o impossibile – esprimere dissenso. Non è forse un ritratto ante litteram del nostro presente? Dove la singola specificità di ognuno è data in pasto alle nostre anonime e falsate identità virtuali, dove non esiste proiezione futura di sé stessi se non sul display dei nostri smartphone, dove non è concesso uscire dalla schiera della maggioranza senza correre il rischio di subire un linciaggio verbale.

È l’abbondanza di parole il vero cruccio del nostro tempo. Di parole trasformate in armi, sfoggiate con il gusto perverso di chi vuole apparire e nascondere l’essere, di chi accetta e insegna una vita spesa all’ombra della ricerca d’approvazione. «Viva la Macchina che meccanizza la vita! – Vi resta ancora, o signori, – recita uno stralcio dei Quaderniun po’ d’anima, un po’ di cuore e di mente? Date, date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di deliziose stupidità ne sapranno cavare e per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni. La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingoiarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che le ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine?».

Tornare ad indignarsi. A questo ci invita Pirandello. A pensare che oltre lo schermo esiste, scorre, pulsa una vita che non può essere ridotta ad un post da commentare o ad una notizia che non richiede la nostra comprensione. A recuperare quella sensibilità verso le tragedie dell’umano che la freddezza degli strumenti a nostra disposizione ha trasformato, al massimo, nella stessa curiosità distaccata che contraddistingue lo spettatore di un film. Gridare si può e si deve: ma solo per incitare a costruire, non a demolire. Solo se, a differenza di Serafino, si abbandona la propria postazione.

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