Per gli appassionati di jazz d’oltremanica, quelli che sanno apprezzare la sperimentazione e la ricerca musicale, il nome Maria Chiara Argirò non ha certo bisogno di presentazioni. E, considerando le esperienze collezionate dalla talentuosa pianista e cantante romana nei suoi dodici anni nella capitale britannica, si capisce il perché. Dall’esperienza come turnista dei These New Puritans alla piena consacrazione dei salotti giusti dello UK jazz, oggi ha all’attivo tre album: The fall dance, lo sfortunato Hidden Seas, uscito poco prima della pandemia, e l’ultima fatica Forest City. Rilasciato a maggio con l’etichetta Innovative Leasure il disco segna un parziale distacco dal jazz per abbracciare sonorità più emozionali che ricordano Thom Yorke e i Radiohead. L’abbiamo incontrata in occasione dei suoi concerti in Sicilia, il 9 settembre al Ricci Weekender di Catania e il 10 settembre all’Oltremente festival di Ragusa.

Da The fall dance fino al recente Forest City, ascoltando i tuoi lavori emerge immediatamente l’ampiezza delle suggestioni che ti hanno influenzata. Quali sono stati i momenti decisivi della tua formazione musicale?
«Il mio percorso è stato ben poco lineare: ho iniziato con gli studi di pianoforte classico e intorno ai 13 anni mi sono innamorata completamente del jazz, iniziando a studiare alla Scuola Popolare di Testaccio. Ho sempre ascoltato tantissima musica, non soltanto jazz tradizionale: quando ho scoperto Wayne Shorter, Thelonious Monk, Keith Jarret mi sono resa conto che mi piaceva di più la parte “contemporanea” del jazz. Allo stesso tempo ho sempre avuto una grande passione per la musica rock, dai Beatles ai Pink Floyd, dai Radiohead a cose un po’ alternative tipo Nick Drake, grazie ai quali ho compreso il modo in cui si costruiscono le canzoni».

Poi però hai deciso di trasferirti a Londra. Cosa ha motivato questa scelta?
«Inizialmente la mia intenzione era di fare un’esperienza di formazione di un anno e prendere un attestato ma, alla fine, sono trascorsi dodici anni durante i quali ho studiato al Conservatorio e fatto diverse esperienze. Londra è un posto pieno di stimoli dal punto di vista musicale, c’è un’apertura alla musica in tutte le sue forme. Anche il pubblico è sempre molto variegato: da un pubblico molto giovane a persone più adulte».

La scena musicale in UK è certamente molto interessante ma anche una città come New York è da sempre legata ad una importante tradizione jazzistica. Vedi affinità tra le due?
«La percezione del jazz è completamente diversa. Forse sento più il legame con Los Angeles che con New York, che è ancora molto legata a un modo di suonare più tradizionale. Sicuramente c’è stato un momento di trend, di quello che è UK Jazz, un movimento che esiste da tanti anni e fa capire che il jazz si può veramente mescolare all’elettronica, all’afrobeat. Sento che c’è un legame – all’interno della comunità che frequento – con quello che sta succedendo a Los Angeles. A Londra sei circondato da persone che vengono da tutto il mondo e questa cosa contribuisce all’apertura mentale, è una cosa che ti arricchisce a livello umano ma anche culturale e musicale, ovviamente. È una specie di caos».

Hai parlato dell’eterogeneità del pubblico londinese: che tipo di pubblico hai incontrato in Italia e che differenze trovi tra i due Paesi?
«Quest’anno ho avuto la fortuna di suonare al Glastonbury Festival e mi sono detta: ma esiste un posto del genere in Italia, dove il settantenne va in campeggio per andare a sentire gli idols? La parte ottimistica di me dice che se si fa un lavoro, come i festival Jazz Re Found e Tracce, si lavora sul pubblico. La chiave sta nell’esporre le persone a un certo tipo di musica, come avviene da sempre in Inghilterra. Anche Catania e Ragusa offrono una line-up sempre molto internazionale e questo aiuta a sviluppare attenzione: se tu esponi le persone a un tipo di musica, questa diventa familiare e si inizia ad apprezzarla e ad amarla».

In che modo il contratto con la Innovative Leasure ti aiutato a prendere ingaggi nei vari festival europei e in Italia?
«Posso dire che, involontariamente, ho fatto un album che è finito nelle mani di questa etichetta, che è una grande opportunità per me: volevo trovare un’etichetta di questo tipo, che non fosse inglese, perché io ho un po’ questo problema a stabilirmi. Se mi dicono “fai parte di UK jazz” io scappo e faccio tutt’altro. Sicuramente avere un’etichetta del genere mi ha dato più credito. In Italia è successo una cosa molto particolare: per la maggior parte di questi concerti sono state le persone a scrivermi. C’è stata tanta attenzione in modo del tutto spontaneo: mi piace molto quando le cose accadono senza forzarle, quindi sono felicissima, anche perché sono un’italiana che vive all’estero».

Come sei arrivata alla musica di Forest City?
«Volevo essere un po’ più diretta dei precedenti lavori. Era importante per me dire: è arrivata a me l’emozione, magari arriverà a chi ascolta. Questo è anche il motivo per cui ho iniziato anche un percorso canoro, un modo per dare tutto e per essere ancora più sincera. La chiave della musica è una cosa molto emotiva per me: ciò che scrivo adesso tende alla direzione emozionale».

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