Morire da fantasma nel centro di una metropoli: Verga e la condanna di “L’ultima giornata”
I fantasmi esistono. Vivono ai bordi delle strade, sul ciglio pericolante di un binario che sferraglia furioso, nella confusione indefinita di una giornata qualunque. Non hanno volto, ma solo una parvenza, un’andatura caracollante e senza meta. Sono impressioni moventi, sagome ritagliate distrattamente dal blocco dell’esistenza, frequenze fugaci di una grande distonia. In apparenza si somigliano tutti: eppure basterebbe poco, giusto il tempo di uno sguardo sfrondato di ogni arrogante pietismo, per scorgere ciò che li distingue l’uno dall’altro. Sono i contorni sfocati delle metropoli annebbiate, il passo spedito e senza requie di chi le abita. I fantasmi esistono, e a crearli è stata la nostra società dell’indifferenza. Quella che emargina e poi condanna, che scambia il disagio con la follia, l’abbandono con l’autoesclusione. La società delle metropoli aperte al mondo e chiuse al sentimento, del frenetico viavai che poi, in fondo, si raggomitola su sé stesso fino ad assumere le fattezze di una danza muta e sgraziata. La società moderna, insomma, perennemente indaffarata e mai interessata, prigioniera della sua esasperata singolarità, fossilizzata fatalmente sul suo ego. È esattamente così che la ritrasse, ai suoi albori, il nostro Giovanni Verga nella novella L’ultima giornata. Una fotografia impietosa, chirurgica, provocatoria della Milano di fine ‘800, nella quale, tra baldoria e supponenza, si poteva persino morire in silenzio. Senza destare scandalo, o compassione. Senza lasciare traccia di sé, se non nel grigio, apatico trafiletto di un quotidiano.
Tanto più stridente se si pensa al momento in cui la morte di un personaggio che non assurge neppure alla dignità di essere qualificato – forse un contadino divenuto per qualche ragione un clochard – avviene, nella finzione letteraria accuratamente architettata dall’autore, durante le festività pasquali. La giovialità del momento è solo apparentemente turbata dalla scoperta, alla stazione ferroviaria, del cadavere. Il microcosmo cittadino si ferma, scruta l’istante, ma presto passa oltre. O peggio: «Oggi, nelle vicinanze di Sesto, fu trovato il cadavere di uno sconosciuto fra le rotaie della ferrovia. L’autorità informa. I giornali non sapevano altro. Una frotta di contadini che tornavano dalla festa di Gorla si erano trovati tutt’a un tratto quel cadavere fra i piedi, sull’argine della strada ferrata, e avevano fatto crocchio intorno curiosi per vedere com’era. Uno della brigata disse che incontrare un morto alla festa porta disgrazia; ma i più ne levano i numeri del lotto». Tra le file degli accorsi, a farsi largo è solo, tristemente, una morbosa curiosità. Un gusto malsano e perverso per la spettacolarizzazione dell’evento, un fiorire di considerazioni indelicate ed inopportune. Se non esisti, di te non ha senso nemmeno la tua scomparsa. Sembra questo il motto che regge il gioco, l’alternarsi delle comparse in questa tragedia che sa paradossalmente di commedia dell’assurdo. Tutti sono sconosciuti gli uni agli altri: nemmeno l’insensatezza della morte, il suo plateale accadere, può fare da collante tra i membri di quella turba priva di ogni umano sentire. «La giustizia cercava se era il caso di un assassinio per furto, o per altro motivo. E fecero il verbale in regola, né più né meno che se in quelle tasche ci fossero state centomila lire. Poi volevano sapere chi fosse, e d’onde venisse; nome, patria, paternità e professione. D’indizi non rimanevano che la barba rossa, lunga di otto giorni, e le mani sudice e patite: delle mani che non avevano fatto nulla, e avevano avuto fame da un gran pezzo. Alcuni l’avevano riconosciuto da quei contrassegni. Fra gli altri una brigata allegra che faceva baldoria a Loreto. Le ragazze che ballavano, scalmanate e colle sottane al vento, avevano detto: — Quello là non ha voglia di ballare! —». Ma non è altro che un riconoscimento improvvisato, incerto, distaccato. Ciò che regna, in realtà, è l’anonimato. La miseria esistenziale di una vittima consegnata alla beffa. Il riflesso della meschinità di chi transita.
Non è forse, quella città così affollata e tetra, la città del nostro tempo? Non è forse quel dolore annacquato dal chiacchiericcio il sinistro antesignano della vita sfalsata a cui i social ci hanno abituato? Non è forse, la sordità al grido di chi chiede aiuto, la livella della nostra non civiltà? «Il cantoniere, onde sbarazzare le rotaie, aveva adagiato il cadavere nel prato, fra le macchie, e gli aveva messa una manciata d’erbacce sulla faccia, ch’era tutta sfracellata, e faceva un brutto vedere, per chi passava. Fra un treno e l’altro corsero il pretore, le guardie, i vicini, e com’era la festa dell’Ascensione, nei campi verdi si vedevano i pennacchi rossi dei carabinieri e i vestiti nuovi dei curiosi. Il morto aveva i calzoni tutti stracciati, una giacchetta di fustagno logora, le scarpe tenute insieme collo spago, e una polizza del lotto in tasca. Cogli occhi spalancati nella faccia livida, guardava il cielo azzurro».