Di lei il Maestro Camilleri, ricordandola con commozione, una volta disse: «La nostra amicizia nacque in un momento per me poco lieto, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Il nostro non era un rapporto autore-editore: saremmo diventati amici anche se io fossi stato un rappresentante di elettrodomestici. Inevitabilmente. Io andavo in Sicilia e parlavo con lei delle mie cose come con nessun altro, con una confidenza straordinaria, come se ci conoscessimo dall’infanzia. Capii solo dopo che per tutta la vita avevo desiderato una sorella. E lei è stata quella sorella». Elvira Sellerio non è stata appena una donna consacrata al fiorire della cultura nella sua espressione più alta, ma un esempio di come, nel complesso e affascinante mondo della letteratura, anche gli autori più brillanti abbiano bisogno di un angelo custode che li guidi e li sostenga quando il percorso si fa più accidentato. Di come l’ardire di un sognatore possa oltrepassare scetticismi e impedimenti. Di come la curiosità sia essenziale per dare vita ad una bellezza che, altrimenti, rischierebbe di rimanere confinata in un deprimente e ombroso cantuccio. Tra qualche settimana, precisamente il 3 agosto, scoccherà il primo decennio senza di lei. Nei giorni in cui, per di più, l’intero Paese si è fermato a ricordare il papà di Montalbano ad un anno dalla sua scomparsa, vogliamo ricordarli entrambi attraverso la storia di una signora del sapere, divenuta grande attraverso le sue parole e le sue scelte.

Scelte spesso avventurose e in controtendenza. Come quella iniziale, datata 1969, di mettere in piedi una casa editrice sui generis. Fu l’imbeccata degli amici Leonardo Sciascia e Antonino Buttitta – con cui frequentava attivamente i circoli culturali più prestigiosi della Palermo anni ’60 – a convincerla della bontà dell’intenzione. Insieme al marito Enzo Sellerio, celebre fotografo ed esperto d’arte, misero su qualcosa di inedito e che avrebbe fatto scuola: una casa editrice volutamente e convintamente periferica, ancorata a quegli universi apparentemente decentrati e capace, anche dalla più minuscola e dimenticata di esse, di guardare al mondo nella sua interezza. Il particolare, dunque, non come limitazione, ma come potenziamento e rinnovamento di una visione culturale ben più ampia. Una posizione, questa, che probabilmente rende ancor più chiara l’affinità con Leonardo Sciascia, che nel 1978 pubblicherà con i Sellerio L’affaire Moro. Lo scrittore di Racalmuto vedeva nei loro sforzi l’opportunità di tornare ad una cultura «amena», capace di coniugare sapientemente impegno e leggerezza, levigato portamento e incisività. Ma anche indipendenza, originalità e radicamento: basti pensare alla scelta di non trattare temi politici a cavallo degli anni ’60 e ’70 (quando in Italia buona parte della cultura e dell’informazione mostrava il suo volto più beceramente ideologizzato) o all’istituzione della monumentale Biblioteca siciliana di storia e letteratura. Caratteristiche che, ancora oggi, si trasmettono imperturbabili e fungono da fondamenta ed eredità per il futuro. Caratteristiche legate a doppio filo alla lungimiranza di Elvira, «durissima e dolcissima» (per usare ancora le parole di Camilleri) comandante che dal 1983, dopo la separazione dal marito, si occupò interamente da sé dei rapporti con gli autori di narrativa.

Elvira Sellerio con Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino. Foto di Giuseppe Leone.

«Così – scriveva la donna – io intendo il mio mestiere di editore: come tramite di un rapporto bellissimo tra gente che racconta storie e altra gente che le ascolta». E proprio questo suo modo di fare artigianale, paziente, intimo aveva prodotto, nel 1981, un altro dei suoi capolavori. A segnalarle le doti di un professore un po’ bizzarro, estremamente schivo e restio a muoversi dalla sua casa-biblioteca, era stato il solito Leonardo Sciascia. Ma fu il fiuto della donna, la cieca fede nel proprio istinto e la certezza che soltanto lei avrebbe saputo valorizzare una storia decisamente fuori dagli schemi a convincere l’anziano professore a dissotterrare dalla polvere del suo cassetto un manoscritto custodito fino ad allora come una reliquia a cui nessuno aveva avuto accesso. Quel professore si chiamava Gesualdo Bufalino; quel manoscritto Diceria dell’untore. Era la sua prima prova letteraria dopo 60 anni di letture appassionatissime. Nello stesso anno vinse il Campiello. Fu la svolta decisiva per entrambi. Di lì a poco, nel 1984, Andrea Camilleri presenterà ad Elvira il manoscritto “La strage dimenticata”. Da subito intesa vincente. Il resto è storia.

«Lo immagino più intelligente, più colto, più pignolo di me. Lo temo moltissimo: questo lettore anonimo è il mio padrone». Più che un mestiere: una missione, un servizio. La tenacia di una donna senza la quale la letteratura siciliana degli ultimi 50 anni sarebbe stata irrimediabilmente mancante. Pensiamo solo a Riccardino, l’ultima avventura del Commissario Montalbano uscita in questi giorni e a lungo cullata, discussa, approvata dalla stessa Sellerio, e poi conservata con cura fino ad oggi. Nel leggere le indagini finali del personaggio di Camilleri, un doveroso pensiero deve andare anche a colei che su quel protagonista fu la prima a scommettere e che da subito ne intuì la forza dirompente. La stessa forza con cui Elvira si impone nella nostra memoria e ci instilla un profondo senso di gratitudine.

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