Mattia Labadessa: «Vi spiego le difficoltà di un fumettista sul web»
Sulla scorta del successo delle sue vignette dell’Uomo Uccello, il giovane artista napoletano ha presentato a EtnaComics Bernardo Cavallino, il protagonista del suo nuovo lavoro pubblicato da Feltrinelli e ha racconta la strada non sempre facile di chi inizia la carriera online
Dopo aver incontrato per la prima volta i fan siciliani nel corso dell’edizione 2018 di Etna Comics, Mattia Labadessa si è confermato quest’anno tra i big della kermesse Etnea. Ventiseienne illustratore e fumettista napoletano, ha raggiunto la notorietà e attirato l’interesse dell’editoria grazie alle vignette e alle strisce con protagonista l’Uomo Uccello, un originale mix di grafica, umorismo e riflessioni esistenziali in grado di tratteggiare efficacemente la generazione dei Millennials. Nel corso dell’ultimo anno, l’autore partenopeo ha visto crescere il proprio già nutritissimo seguito di pubblico e, soprattutto, ha impresso una svolta al suo percorso artistico che lo ha condotto alla pubblicazione di Bernardo Cavallino per i tipi di Feltrinelli. Ad un anno dal nostro primo incontro, l’atipico “fumettista che non legge fumetti” ci racconta come si è evoluto il suo rapporto con il mondo della nona arte e ci parla della sua ultima opera e del suo legame con la Sicilia.
Sei ormai un autore affermato, con un grandissimo riscontro di pubblico, ma sembra esserci sempre una sorta di snobismo nei confronti degli autori che nascono sul web. Tu lo hai mai avvertito? Da cosa nasce questo pregiudizio, secondo te?
«Io l’ho avvertito parecchio all’inizio. Stranamente, nonostante esistessero già i web comic in Italia, quando ho aperto la mia pagina è stato come se tutti si fossero accorti improvvisamente che si poteva fare fumetto online. Da qui altri hanno iniziato a percorrere la mia stessa strada. Da dove nasca il pregiudizio contro di noi fumettisti del web, non saprei dire. Per quanto riguarda il mio caso, c’è chi dice che è per il fatto che non leggo fumetti, che sono un ignorante in materia, e quindi non meriti il riscontro che sto ottenendo. Forse chi viene dal web è meno stimato perché tende a trattare certi temi perché vanno per la maggiore, ad usare un certo tipo di disegno molto asciutto e meno raffinato di chi, magari, è nel settore da anni».
A proposito del tuo essere in questo mondo in modo atipico, di non essere un lettore di fumetti, è un aspetto che ti crea delle difficoltà? O reputi che ti dia la possibilità di esprimerti in maniera più originale o comunque priva di influenze?
«Sì e no. A volti pensi di aver avuto un’idea originale, salvo poi accorgerti di essere solo l’ultimo ad averci pensato. D’altra parte, non avendo una solida cultura del fumetto sono libero dai canoni che magari i miei colleghi si sentono in dovere di rispettare. Infatti in alcune recensioni, ad esempio di Mezza fetta di limone e altri libri, c’erano lettori di fumetti accaniti che hanno notato questo mio approccio e questa “ventata d’aria fresca” nel modo in cui, ad esempio, mi approccio alla tavola. Esiste, però, anche il rischio opposto cioè che, usando il mezzo espressivo in modo così inusuale, al lettore riesca difficile cogliere le mie intenzioni sulla tavola».
Bernardo Cavallino, questo nome. C’è un legame col pittore?
«No, col pittore no. Come dico all’inizio del libro, è solo la via dove abitano i miei nonni materni, a Palermo».
…e quindi arancino o arancina?
«A Palermo arancina, qui a Catania arancino e a Napoli “pall’ ‘e ris’”. E ce ne usciamo puliti».
Quindi il collegamento è soltanto con la via?
«Sì ma c’è una ragione più seria. La sua ossessione verso la morte, la paura di sparire e il suo legame coi ricordi, che sono la cosa che lo tiene attaccato all’essere esistito, con quelle cose che esistono solo per chi le ha vissute: è tutto questo che si ricollega la via dei miei nonni, perché della loro casa ho mille ricordi. Ho un legame affettivo incredibile con quel posto ed è un po’ l’ancora che si porta dietro Bernardo».
Bernardo ha una particolare ossessione per le candeline di compleanno. La tua invece qual è?
«Eh, sono parecchie. In realtà la mia ossessione principale è quella verso la morte, esattamente come Bernardo. Sono un po’ terrorizzato. Amo tantissimo la vita, che è l’unica cosa che abbiamo, e quindi il pensiero di morire mi terrorizza sul serio. L’altra, purtroppo, sono gli spinelli. All’inizio mi facevano stare bene, ma adesso ne sto abusando e diventa tutto terribile: stai a casa e ti senti un essere inutile, non mangi…decisamente una brutta ossessione».
Tornando al libro, i tuoi personaggi sono dominati da un personaggio onnipotente con il potere di cancellarli. È la tua metafora della vita?
«Ho cercato di dar voce ad ogni punto di vista da cui ho affrontato il problema della morte e la voce narrante, che è la Disillusione, è proprio quella parte che cancella gli altri. Ad esempio, se sono impaurito arriva la Disillusione e mi dice: “Di che hai paura? Sei un essere inutile, che cazzo te ne fotte? Paura di che? Di perdere cosa? Non servi a niente”. Hai un po’ di speranza? Arriva la Disillusione e dice: “Ma in cosa vuoi sperare?”. E cancella. Quindi è questo il suo potere, nel libro e anche nella mia vita: il fatto di calpestare tutto e tutti senza pietà. Perché, alla fine, non c’è molta pietà nell’universo. Anzi non ce n’è proprio, non c’è mai stata. Non esiste la pietà, non era prevista».
Nel libro hai abbandonato il tuo caratteristico sfondo giallo in favore di un netto bianco e nero. È una scelta motivata da quanto detto finora?
«Sì, era anche una necessità per l’atmosfera che volevo dare a questo libro. Volevo far capire che è una cosa diversa. Bernardo Cavallino mi rappresenta molto di più dell’Uomo Uccello, perché è molto più onesto, è un personaggio quasi noioso perché è una nullità e io mi sento nello stesso modo. Ho tolto il giallo per creare proprio questo distacco: non è l’Uomo Uccello. Volevo trasmettere la lotta tra il buio e la luce quindi il bianco e nero era la soluzione perfetta. E infatti c’è una crescita del nero, tavola dopo tavola, e più si va avanti e più il nero aumenta fino a diventare opprimente».
Ritieni, quindi, che sia l’opera che ti rispecchia maggiormente?
«Sì, ed è pure quella che mi piace di più, stilisticamente parlando. Poi come opera in sé non saprei dirti quale mi piace di più tra quelle che ho fatto. Forse c’è una lotta tra Bernardo e Calata Capodichino, che è pure abbastanza dark, nel senso di maturo».
Abbiamo parlato del tuo rapporto con la casa dei tuoi nonni a Palermo. Qual è, invece, il tuo legame con la Sicilia?
«Ho vari parenti qui, sono venuto spessissimo. In realtà ci sono venuto spesso fino ai quattordici, quindici anni, poi sono tornato solo per gli eventi. Praticamente non ci venivo da un sacco. Mi piace molto! Mi piace come mangiate. Amo gli anelletti al forno e ho un problema con le panelle: nel senso che mi piacciono, ma non capisco come si faccia a mangiarle col pane. Diciamo che il mio legame con la Sicilia è…mi piace assaporarla, ma non solo a livello alimentare. Una bella metafora: è la mia palla di riso, la Sicilia, in cui sguazzo dentro».