«Non è la macchina fotografica a fare l’immagine, ma sono le idee, la sensibilità e la cultura di chi è dietro il mezzo a fare la differenza. Chi è povero di contenuti personali non riesce a fare una bella foto, nè con il telefono, né con la compatta e nemmeno con l’ultimo modello di reflex in commercio». Con queste parole Michael Christopher Brown svela il segreto del suo approcciarsi alle immagini e alla realtà. Una realtà che, fin da bambino, nella piccola comunità di Skagit Valley (Washington), ha imparato a conoscere attraverso la camera oscura al seguito del padre. La sua scalata internazionale è rapidissima: prima una laurea in psicologia e un master in fotografia documentaria poi la collaborazione con testate di altissimo livello. «Le mie prime macchine fotografiche – racconta – sono state una Nikon e una Olympus OM-2. Entrambe appartenevano a mio padre. Adoravo quanto fosse piccola la Olympus, quasi riusciva a entrare nella tasca del mio cappotto, mentre ricordo che la Nikon era più resistente, ma un po’ più ingombrante».

La grande rivoluzione per il 43enne fotoreporter americano avviene nel 2010, grazie alla sua permanenza in Cina. Lui stesso ha raccontato che, quasi per scherzo, è stato quello il momento in cui ha cominciato a scattare con l’Iphone. Un’esperienza straordinaria, che lo ha avvicinato silenziosamente alla gente come mai nessuna macchina fotografica tradizionale gli avrebbe consentito. Più tardi, durante un reportage in Libia, la sua fotocamera si rompe e la scelta di fotografare con l’Iphone fu definitiva. Quel lavoro, “Lybian Sugar” si ricorda come uno dei primissimi reportage di guerra pubblicati sulla stampa internazionale interamente con l’uso di un cellulare.

“Conquistato” il titolo di fotogiornalista con l’Iphone, nel 2013, la prestigiosa agenzia Magnum gli propone una collaborazione. La sua nomina è un terremoto nel mondo della fotografia. All’interno della stessa Magnum alcuni membri non la vedono di buon occhio, ma Michael viene comunque ammesso definitivamente nel 2017.

Un atteggiamento che, naturalmente, si doveva non tanto al valore del fotoreporter, quanto al suo insolito metodo di lavoro. In particolare, a destare le maggiori perplessità l’uso dell’applicazione “Hipstamatic”, capace di dare alle immagini una patina analogica, lavorando sui toni e sui contrasti e per questo considerata come modificatrice dello scatto originale. Brown si è più volte difeso così: «Quando fai una foto potente, e non sto parlando di una foto carina, non importa che mezzo usi.  Qualcuno dirà che i cieli sono un po’ troppo blu, e la carne un po’ troppo rossa, ma quel che conta per me è il contenuto. Che cosa è legittimo? Usare una Leica per scattare su una pellicola in bianco e nero, per poi sviluppare e correggere luci e ombre in stampa? O scattare in RAW con una canon 5D, ottenendo un’immagine piatta e grigiastra da correggere in seguito, magari con vignettature e colori selettivi? Quindi perché dovrebbe essere contrario all’etica usare Hipstamatic, un software che crea immagini a colori e perfettamente a fuoco? Cos’è più realistico? L’ennesima prova che, più che la macchina fotografica, conta l’occhio, e la serietà professionale di chi la usa».

Oltretutto, l’utilizzo di un simile supporto gli permette di immortalare degli istanti decisivi con grande rapidità. Un esempio chiaro è la foto presentata in questo appuntamento della rubrica. Siamo nel 2012, all’aeroporto di Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, gli aerei abbandonato a causa di guerre ed eruzioni vulcaniche, negli ultimi due decenni sono stati un parco giochi per bambini di strada, alcuni dei quali vendono alcune parti che vengono trasformate in stufe e altri oggetti per essere messi in vendita sulle strade di Goma. È generalmente vietato fotografare questo aeroporto, ma a metà dicembre 2012, dopo che la forza ribelle che occupava Goma aveva sgombrato il campo, Brown approfitta di un vuoto di sicurezza per scattare una delle immagini più significative della guerra civile in Congo. 

Come tante altre foto scattate da Brown, diversi sono i soggetti che animano lo scatto. Ci sono tre bambini di cui uno fortemente incuriosito dal fotografo, ci sono due aeroplani diventati luoghi di divertimento, ci sono delle nuvole che incombono sulla scena quasi a voler predire un violento temporale, c’è un tratto di cielo azzurro che accarezza il vulcano attivo sul monte Nyiragongo, che non promette nulla di buono. La prospettiva dello scatto, dal basso in alto, dà all’immagine una forza dirompente dove i bambini, ognuno a suo modo, tentano di prendersi il centro della scena. Le immagini di Brown incantano, sono profonde, sono vero reportage, coinvolgono chi le guarda fino a fare assaporare l’ambiente che racconta.

Proprio al fotoreporter americano prossimamente Catania dedicherà la sua prima mostra italiana, curata da Ezio Costanzo. L’esposizione sarà disponibile dal 9 Ottobre al 30 Aprile 2022 alla Galleria d’Arte moderna – Le Ciminiere, organizzata dalla  Fondazione OELLE Mediterraneo Antico con la co-organizzazione della Città Metropolitana di Catania.

«Christopher Brown – afferma Ezio Costanzo – è un testimone del nostro tempo che immortala gli eventi giornalisticamente, ma anche con una narrazione forte, introspettiva. Nei suoi scatti emerge la sua opinione, fotografa la storia del mondo, della gente, degli avvenimenti, anche drammatici come le guerre e i conflitti civili. Come è successo in Libia, dove si è sentito fortemente connesso agli eventi e alle persone che fotografava, al sogno della conquista della libertà che gli aleggiava attorno. Ecco, per Brown la Libia è stata come la Spagna durante la guerra civile del 1936 per Robert Capa. Sta dentro con tutta la sua partecipazione emotiva, rischiando la pelle per trovarsi sempre a un passo dalla notizia».

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