Alcuni personaggi, più che alla storia canonica, quella che schematicamente riempie i manuali di scuola, sembrano appartenere ad una pellicola di Tim Burton o di Woody Allen. Travalicano contestualmente, da sapienti trasformisti quali sono, persino i confini della realtà e della fantasia. Sono maschere svincolate dalla fissità del palcoscenico, leggende aggrappate a racconti fatti di carne ed ossa, fulmini squassanti nel cielo sereno della consuetudine. Neppure il nome, che pure dovrebbe conferire un’aura di riconoscibilità, è in grado di racchiuderne ed esaurirne la complessità. Finiscono per stagliarsi lì, negli angoli più remoti della memoria collettiva, nei ricordi e nelle testimonianze ammirate dei loro contemporanei – anche quelli più illustri – come eccezioni che non è dato comprendere fino in fondo. Motori imprescindibili, talvolta anche invisibili, di vere e proprie rivoluzioni. Di tali figure, eclettiche a dir poco, interpreti variegati e creativi dello scibile umano, è particolarmente ricco il Rinascimento italiano. E proprio lì, nell’intercapedine tra le luci del razionalismo umanistico e le ombre delle pulsioni più scaramantiche e poco ortodosse, che si colloca un siciliano unico nel suo genere. Un genio multiforme e a tratti controverso, che ammaliò con la caratura del proprio intelletto – al punto da essere più volte conteso per i suoi servizi – papi, duchi, scienziati e scrittori. Il suo nome, o almeno quello con cui volle essere ricordato tra i tanti che aveva impersonato, era Flavio Mitridate e la sua storia da girovago del mondo e dell’anima ebbe inizio a Caltabellotta, nell’agrigentino, a metà del XV secolo. Curiosa e imprevedibile sin dalla nascita.

Il nostro, infatti, era figlio di un rabbino. Ma non di uno qualsiasi: bensì di un rabbino arabo-spagnolo. Non stupisce, dunque, che la sua registrazione anagrafica recasse il nome di Shemuel ben Nissim Abul-Farag. Una miscela culturale e morale già di per sé peculiare, quasi antinomica, a cui ben presto si aggiunse un ulteriore elemento: quello della conversione cristiana. Fu allora, nella sua adolescenza, che il suo nome divenne temporaneamente Guglielmo Raimondo Moncada, in omaggio al suo padrino di battesimo. Prima che un altro coup de théâtre lo consacrasse definitivamente alla fama con lo pseudonimo letterario di Mitridate, di chiara suggestione orientale. Fu questo incrocio irripetibile di genetica e sapere ereditato a renderlo un concentrato di personalità, esperienze e conoscenze con pochissimi eguali nella storia moderna, capace di passare con estrema naturalezza dalle lingue semitiche a quelle occidentali, dallo studio filologico dei manoscritti alla teologia e alla filosofia. A farne un protagonista d’eccellenza, benché raramente riconosciuto tale, della grande epoca di splendore del nostro Paese. Fu lui, alla corte di Sisto IV o di Federico da Montefeltro, ad Urbino, a fungere da interprete dei fitti scambi culturali tra Occidente ed Oriente. Fu sempre lui ad intrattenere fruttuosi rapporti con grandi pensatori come Marsilio Ficino. E fu ancora lui, soprattutto, mentre ricopriva il prestigioso ruolo di docente di teologia alla Sapienza, a fornire un contributo imprescindibile alla formazione di un altro genio fuori da ogni schema, vale a dire Pico della Mirandola. Il quale ebbe modo di imparare la lingua ebraica (e persino quella caldaica) proprio grazie alle lezioni di Mitridate. A cui, per di più, va ascritto un merito, se possibile, ancora più grande. Si stima, infatti, che siano stati più di 3000 i codici contenenti testi della cabbala ebraica che il siciliano tradusse in latino proprio a beneficio dell’illustre amico. Una biblioteca quasi sconfinata per l’epoca, che non si limitò a dare straordinario impulso agli studi antichi ma anche a lasciare una traccia di influenza perpetua sull’approccio che gli occidentali ancora oggi utilizzano per avvicinarsi alla complessità dei testi ebraici. 

Quello di Mitridate fu davvero un ingegno misterioso, al quale il maestro Andrea Camilleri volle dedicare un romanzo storico nel 2014, dal titolo Inseguendo un’ombra. Misterioso, nel bene e nel male, come la sua vita. Tanto all’inizio, quanto alla fine. Nel 1489, una drammatica vicenda dai contorni mai troppo definiti, che portò al compimento di un omicidio tra le strade della Città Eterna, lo costrinse a lasciare Roma, privato di ogni bene. Dopo il fattaccio, di lui si perse ogni traccia. È presumibile che sia morto in quella data, poco prima che le sue radici implodessero dinanzi alla crudeltà della storia. Poco prima, cioè, che la Spagna espellesse gli ebrei. Ma che la sua vita si sia spenta proprio allora non è affatto certo. E, in fondo, va bene così. Perché ad una vita indecifrabile non poteva che corrispondere una morte altrettanto inusuale.

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