Nell’atto della scrittura si cela qualcosa di molto più radicato che una semplice esigenza di espressione personale. È un istinto quasi primitivo, incontenibile, di affermare le verità celate, di trasformare la propria isolata voce nel coro travolgente di un sentire collettivo rimasto ingiustamente sotterraneo, la terapia per l’anima ferita dalle tragiche contraddizioni del mondo. Talvolta è persino il prezzo da pagare per riscattare un frammento di libertà negata, l’atto supremo di una dolorosa ma necessaria introspezione, la luce rischiaratrice che conferisce nuova dignità agli abissi del cuore. La scrittura, in questo senso, può essere definita sacra: non nell’accezione più comune legata ai concetti devozionali della ragione, quanto, piuttosto, per l’inviolabilità dei valori che trasmette e che ricerca spasmodicamente, per la capacità di sovvertire, seppur momentaneamente, l’ordine sociale e morale costituito. Non è un caso che, soprattutto in Sicilia, dal XIX secolo in avanti le lotte femministe abbiano fatto largo uso della stampa e della letteratura, e più in generale dei circoli intellettuali, per scardinare privilegi e stereotipi secolari. E in prima fila, su quelle rischiosissime e vituperate trincee, stava anche Elvira Mancuso, scrittrice nativa di Caltanissetta che a cavallo tra ‘800 e ‘900, ricalcando in una certa misura le orme dei grandi veristi isolani che non fece mai mistero di ammirare – più volte scambiò delle lettere con Capuana – conquistò l’imperitura fama di paladina ante-litteram dei diritti delle donne con il suo primo e unico romanzo. Una storia di coraggio e lungimiranza, che certo lasciò un segno indelebile, se è vero che, a un secolo di distanza, Calvino e Sciascia tornarono ad elogiarlo con sincera ammirazione.

Annuzza la maestrina, infatti, edito nel 1906 e poi ripubblicato da Sellerio negli anni ’90, miscela sapientemente l’impietosa analisi verista con la ferrea volontà di riscatto e ascesa; la dolorosa convivenza con un asfissiante e totalizzante patriarcato e l’utopica prospettiva dell’emancipazione; il pathos della finzione e dell’intreccio narrativo con il sofferto ricorso all’autobiografismo. Perché Mancuso, lei stessa insegnante che si sforzò per tutta la vita di affermare l’indipendenza professionale come cardine imprescindibile per la parità di genere, conosceva perfettamente l’inquietante sensazione di sentirsi sminuite, ignorate, declassate. Nelle vicende del suo personaggio più riuscito, che faticosamente ottiene dalla madre e dal fidanzato Pasquale il permesso di intraprendere gli studi prima del matrimonio – mandando giù il boccone amaro di dover chiedere un prestito al compagno – salvo poi ritrovarsi abbandonata a discapito di un’altra donna maggiormente accondiscendente alle imposizioni dell’uomo, si riflette l’incubo di un’intera generazione sopraffatta dal dispotismo dell’autorità maschile, la tragedia di una reificazione senza fine, l’aridità e l’ipocrisia di un presunto sentimento amoroso che sfiorisce malamente non appena le gerarchie e le consuetudini risultino appena minate. Ma anche il rifiuto di qualsivoglia tentazione di rassegnarsi, il superamento di una atavica indolenza e di una minorità a cui le stesse donne, a furia di sentirselo ripetere, avevano iniziato a credere. Le pagine dirompenti della Mancuso, taglienti e raffinate al tempo stesso, volte non a prendere passivamente atto dello status quo (e qui sta lo scarto più evidente rispetto all’immaginario verista da cui pure aveva tratto nutrimento), ma a denunciare le nefandezze, a scardinare la granitica logica del padrone. Per lei, per le sue contemporanee, e per tutte le donne che l’avrebbero succeduta.

«Ebbene, da tutte le conquiste della borghesia, – scriveva Elvira Mancuso nel suo capitale saggio Sulla condizione della donna borghese in Sicilia: appunti e riflessionila donna siciliana non ha ricavato che il magro conforto di servire un padrone più libero, più potente, più lieto di vivere. Ella è rimasta, intellettualmente, assai inferiore all’uomo, e la coscienza di questa sua inferiorità la rende sì umile, che la sua perenne sottomissione, il sacrificio continuo dei suoi diritti, della sua personalità, le sembrano cose fatali e necessarie, ordinate dalla natura e da Dio». Ma la battaglia non è certo conclusa. E se le donne hanno pian piano sfatato l’assurdo mito della sottomissione, siamo sicuri che gi uomini siano pronti a fare la loro parte? Che la società, in ogni sua declinazione, in ogni suo ambito, abbia il coraggio di rinunciare una volta per tutte ai principi che da sempre l’hanno guidata? Non è semplice dare una risposta. Ma le notizie che quotidianamente giungono alle nostre orecchie fanno propendere verso il no. D’altra parte, se così non fosse, cesserebbero di avere valore le parole di Sciascia a proposito della storia di Annuzza: «In questo libro vi sono molte verità che non invecchiano». Se così non fosse, non sentiremmo il bisogno, ancora oggi, di leggere Elvira Mancuso.

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