Ultimamente gli abitanti di Catania e dintorni si svegliano e per prima cosa guardano fuori: in che stato saranno i balconi, le strade, le auto? La risposta è spesso la stessa: pieni di cenere dell’Etna. Il primo pensiero è quello di spazzarla via, ma la terra vulcanica non è solo un rifiuto, bensì una risorsa.

Dai Romani a oggi. Per quanto difficile a credersi, se tutt’oggi si ammirano con stupore opere come il Pantheon il merito è proprio della cenere vulcanica impiegata per il cemento della loro costruzione. Mario Pagliaro, palermitano dirigente di ricerca del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), spiega: «I Romani scoprirono che mescolando la calce viva con acqua e cenere vulcanica si otteneva una malta con cui era possibile assemblare intere strutture edilizie in mattoni, come le mura urbane o gli acquedotti». Già Vitruvio, architetto romano autore del “De Architectura”, nel I secolo a.C. dava la ricetta per questo materiale edilizio: «Tre parti di cenere vulcanica, una di calce e una di acqua compongono la malta» spiega il dottor Pagliaro. Recuperando questa antica usanza, anche oggi si potrebbe sfruttare l’abbondante cenere dell’Etna in edilizia: «Come dimostrato dalla docente e ricercatrice Unict Loredana Contrafatto – afferma Pagliaro – la cenere dell’Etna ripulita dalle sostanze che si mescolano a essa non appena cade può sostituire il cemento nella produzione del calcestruzzo».

Cenere vulcanica in ambito edilizio. Le ricerche della dottoressa Contrafatto sono state riprese dal Politecnico di Boston, che ha dimostrato che basta ridurre a 6 micometri le particelle di cenere vulcanica per impiegarle nella realizzazione del calcestruzzo. «L’industria del cemento dispone dei macchinari necessari per questa operazione che consentirebbe di sostituire il 50 per cento del clinker (componente base del cemento) presente nel calcestruzzo con cenere vulcanica» afferma il dottor Pagliaro. In un territorio ricco di vulcani attivi come il Cile, un’azienda sta già sfruttando questa tecnica con ottimi risultati: «La Cementos Portland Valderrivas ha sostituito il 20% del clinker con cenere vulcanica ottenendo un calcestruzzo che dopo 400 giorni dall’impiego edilizio è risultato meno degradato di quello tradizionale».

Meno cemento, più terra nera. L’augurio è che anche in Sicilia si possa giungere a un simile recupero della terra vulcanica, che così graverebbe meno sui costi di smaltimento dei rifiuti, ma per ora essa è stata accantonata insieme a molti materiali edili di origine naturale come il legno. «Il motivo di questa mancanza sta nella grande disponibilità a bassi costi del cemento Portland ottenuto bruciando il carbone e del pet-coke, residuo della lavorazione del petrolio» denuncia Mario Pagliaro.

Cenere vulcanica in ambito agrario. Nell’ambito agricolo, la pioggia di cenere sulle foglie delle coltivazioni è rovinosa, ma unica per la fertilità dei terreni. A confermarlo è l’ingegnere Salvatore Giamblanco, che ha avuto un’intuizione geniale partendo da un settore distante dalla botanica. «Io sono il proprietario di un’azienda che si occupa di trasportare merci pericolose e di garantire sicurezza in diversi campi, come nelle aree petrolifere del siracusano». Dal tentativo di arginare le perdite di petrolio in mare con l’uso di alcuni copolimeri, è stato osservato che questi non erano ben resistenti all’acqua salata. «Dal momento che il problema era il sale, ho pensato di sfruttare questi stessi copolimeri con l’acqua dolce per ridurre la necessità di irrigazione delle piante. A essi ho aggiunto la cenere vulcanica, che è un ottimo fertilizzante assorbente».

Fertilità e assorbenza. Nasce così “Niura”, una terra fertile a base di cenere lavica, pomice e torba bionda, componenti inerti di questa miscela priva di metalli pesanti. Essa va iniettata con un apposito spargitore alla base delle radici ed è capace di trattenere l’acqua in eccesso allo stato solido rilasciandola lentamente quando la pianta ne ha bisogno. «In questo modo si evitano sprechi di acqua e di tempo, poiché si può anche riempire il vaso fino all’orlo stando certi che le radici assorbiranno l’acqua solo quando necessario» afferma il dottor Giamblanco. «La terra nera sfruttata – spiega l’ingegnere – è quella della colata lavica del 1669 perché abbiamo la certezza che sia priva di metalli pesanti, ma anche quella che cade oggi può essere impiegata, purché analizzata ed eventualmente ripulita»

Dalla Sicilia alla Tunisia. Al di là dell’uso privato che si può fare di questo ammendante, che consente di non avere preoccupazione per la propria flora domestica quando ci si allontana da casa, “Niura” da Augusta ha trovato impiego anche all’estero. A Gela sorge una bioraffineria Eni alimentata da olio di ricino proveniente da una coltura sperimentale di ricino in Tunisia. «Per rendere fertili i terreni semidesertici tunisini è stata scelta proprio “Niura”» conclude l’ingegnere Giamblanco.

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