Una mostra nella Ville Lumiere analizza l’influenza che le altre culture hanno avuto nella storia musicale delle capitali di Francia e Gran Bretagna. S’inizia dal 1962, quando i Beatles pubblicano “Love me do”. In Italia l’incontro comincia più tardi: il precedente siciliano dei Kunsertu. Oggi il nostro Paese detiene il record di orchestre multietniche. L’ultima nata si chiama Almar’à, ed è il primo ensemble di donne arabe e del Mediterraneo

Alex Ross, nel suo brillante viaggio attraverso la musica del Novecento, dal titolo “Il resto è rumore”, si sofferma su “Porgy and Bess”, l’opera di George Gershwin che nel 1935 generò per la prima volta un acceso dibattito sul reale contributo dei ritmi introdotti dagli emigranti africani nella musica americana. Le avventure di un mendicante afroamericano zoppo che cerca di salvare la giovane Bess dalle grinfie di un protettore realizzano «la monumentale impresa di conciliare la rigidità della musica scritta occidentale con il principio africano della variazione improvvisata» scrive Ross.

Penso a Gershwin e alla sua doppia vita di artista colto e popolare, come un bambino americano e figlio di immigrati ebrei, mentre giro lo sguardo tra i volti bianchi e neri dei passeggeri di un vagone della linea 8 della Metropolitana di Parigi che mi porta al Palazzo del Golden Gate. L’emblematico edificio di Albert Laprade e Jean Prouvé dal 1931 ospita il Museo di Storia della Emigrazione nel quale, fino al 5 gennaio 2020, si può vedere la mostra “Parigi-Londra. Migrazioni Musica (1962- 1989)”: un’analisi sull’influenza che le vicende coloniali e l’emigrazione hanno avuto per lo sviluppo musicale delle due capitali.

«Vogliamo dimostrare che con i migranti sono arrivati artisti e compositori e la loro musica, e che questa musica ha portato una ricchezza che fa parte del nostro patrimonio. E il comune denominatore è che questa diversità è un segno del successo dell’integrazione» ha affermato il curatore Stéphane Malfettes.

La mostra offre un’esperienza visiva e musicale con oltre seicento articoli, tra cui foto, poster di concerti, video, riviste, strumenti e costumi, oltre ad alcune delle più celebri registrazioni dei tre decenni. «In un contesto europeo in cui le nazioni guardano dentro e desiderano chiudere i propri confini, la mostra, che si è aperta in tempo di Brexit, è al centro dei temi più dibattuti», spiega il catalogo. Il curatore Stéphane Malfettes ha detto all’Observer che uno scopo della mostra è proprio quello di contrastare gli attuali atteggiamenti negativi nei confronti della migrazione. «Vogliamo dimostrare che con i migranti sono arrivati artisti e compositori e la loro musica, e che questa musica ha portato una ricchezza che fa parte del nostro patrimonio. E il comune denominatore è che questa diversità è un segno del successo dell’integrazione».

Il punto di partenza della mostra è il 1962, anno in cui gli ex territori britannici della Giamaica, Trinidad e Tobago diventarono indipendenti e l’Algeria si liberò dal dominio francese. Il 1962 è l’anno in cui debuttano i Rolling Stones e i Beatles registrano il loro primo singolo “Love Me Do”, ma anche il periodo in cui nuovi fenomeni musicali prendevano forma nei bar più infimi di Soho e Camden a Londra e nei caffé della banlieue parigina.

Il punto di partenza della mostra è il 1962, quando gli ex territori britannici della Giamaica, Trinidad e Tobago diventarono indipendenti; nello stesso anno, l’Algeria si libera del dominio francese dopo una guerra di otto anni. Qualche anno prima, tra il 1955 e il 1960, 200.000 emigrati dai Paesi del Commonwealth (Giamaica, India, Pakistan …) si stabilirono nel Regno Unito; e tra il 1954 e il 1962, 150.000 algerini arrivarono in Francia.

Il 1962 è l’anno in cui i Rolling Stones debuttano al Marquee Club ed i Beatles arrivano da Liverpool per registrare il loro primo singolo, “Love Me Do”. Dall’altra parte della Manica, “French Elvis” di Johnny Hallyday, Françoise Hardy, Georges Brassens e Brigitte Bardot sono in cima alle classifiche musicali.  La mostra rivela, però, che nello stesso periodo, nuovi fenomeni musicali prendevano forma nei bar più infimi di Soho e Camden a Londra e nei caffè della banlieue parigina. Tra i loro eroi c’erano Millie Small, il cui successo “My Boy Lollipop” divenne nel 1964 uno dei brani ska più venduti di tutti i tempi, e Desmond Dekker , i cui dischi nel 1969 erano ascoltati da giovani bianchi e mods della classe operaia. Più tardi, Bob Marley e Wailers, Aswad e Steel Pulse avrebbero assaltato le scene musicali britanniche e internazionali con reggae e roots reggae, mettendo in luce le difficoltà e le aspirazioni della diaspora africana e ispirando gruppi come i Clash e gli Specials.

Malfettes: «Ricordo quando Serge Gainsbourg negli anni ’70 registrò il suo reggae marsigliese (“Aux Armes Et Caetera”). Alla domanda se fosse una provocazione, rispose: Il reggae è una musica rivoluzionaria, “La marsigliese” è una canzone rivoluzionaria”».

Negli anni ’70, quando i governi britannico e francese rafforzano le politiche di immigrazione sulla scia della crisi petrolifera internazionale, e l’estrema destra guadagna terreno, la musica si carica di contenuti politici.

A Londra, la comunità caraibica organizza il carnevale di Notting Hill per difendere l’unità culturale, mentre i concerti Rock Against Racism nel Regno Unito e Rock Against Police in Francia cercano di contrastare un’atmosfera sempre più ostile per le comunità di migranti.

«A Parigi negli anni Settanta, gli artisti africani si sono politicizzati con l’estrema sinistra in un movimento che utilizzava molto la musica per raccontare le storie dei lavoratori immigrati. Era un movimento di lotta», racconta Malfettes. «Ricordo quando Serge Gainsbourg registrò il suo reggae marsigliese (“Aux Armes Et Caetera”). Alla domanda se fosse una provocazione, rispose: “Il reggae è una musica rivoluzionaria, “La marsigliese” è una canzone rivoluzionaria”».

Negli anni Ottanta la capitale francese diventa il cuore del bubbling musicale e del multiculturalismo. Musicisti provenienti da tutta l’Africa occidentale fanno di Parigi l’epicentro della musica mondiale.

Negli anni Ottanta la capitale francese diventa il cuore del bubbling musicale e del multiculturalismo. La musa del palazzo, la famosa discoteca sui Grands Boulevards, è Grace Jones. Il “suono del mondo” è sulle frequenze di Radio Nova e sulle pagine del giornale Actuel. Manu Dibango , Youssou N’Dour o Touré Kunda, musicisti provenienti da tutta l’Africa occidentale fanno di Parigi l’epicentro della musica mondiale. «Tra i motivi per spiegarlo, c’è il contesto politico», dice Angeline Escafré-Dublet, co-curatrice della mostra. «I primi anni Ottanta sono gli anni del governo socialista, gli anni di Lang, gli investimenti nella cultura, l’utopia di identità pluriculturale. In Inghilterra, al contrario, sono gli anni della Thatcher».

Parigi è il luogo della scoperta, ma l’internazionalizzazione passa per Londra. Il “suono del mondo” si diffonderà comunque a lungo, dal momento che l’electro-pop come l’hip hop si nutrono ancora di questi ritmi.

In Italia il fenomeno migratorio è stato avvertito soltanto dopo la caduta del Muro di Berlino. Oggi siamo il Paese europeo che detiene il primato di orchestre multietniche: 19, di cui 7 solo a Roma. L’ultima nata si chiama Almar’à, ed è la prima orchestra di donne arabe e del Mediterraneo.

È quello che accade in Italia, dove il fenomeno migratorio abbiamo cominciato ad avvertirlo dopo la caduta del Muro di Berlino con gli sbarchi di massa dall’Albania a inizi anni Novanta. Mentre alla fine del decennio comincia l’inarrestabile ondata migratoria con l’esplosione delle “primavere” nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente.

Nel 2002 nasce l’Orchestra di Piazza Vittorio, primo esempio di orchestra multietnica, con diverse estrazioni e generi musicali e con un numero di musicisti che varia dagli 8 ai 25 componenti. L’Italia diventerà il Paese europeo a detenere il primato di orchestre multietniche in termini di presenza sul territorio: 19, di cui 7 solo a Roma. L’ultima nata si chiama Almar’à, ed è la prima orchestra di donne arabe e del Mediterraneo. Musiciste di ogni età, professioniste e non, cantanti tradizionali e moderne; suoni che partono dalla musica araba, attraversano quella classica ed entrano nei territori del jazz; strumenti orientali e occidentali insieme. Tutto in Almar’à è un inno alla bellezza della diversità. Un arcobaleno musicale nato dall’integrazione sociale, una delicata polifonia femminile che diventa meraviglia culturale. Provenienze diverse, spesso accomunate da una nazionalità italiana, una seconda generazione che guarda al futuro con la voglia di ritrovare le proprie tradizioni. Un’occasione per fotografare l’Italia che esiste ma che rimane ancora nascosta nelle singole esperienze, carente di un racconto collettivo e complesso.

Un precedente si era registrato verso gli inizi degli anni Ottanta in Sicilia con i messinesi Kunsertu, tra i pionieri dell’etno rock. Grazie anche alla carismatica presenza del cantante arabo Faisal Taher, mescolano cultura e lingua siciliane alle altre del bacino del Mediterraneo, individuando temi ancora di drammatica attualità come i campi profughi palestinesi o, più in generale, accoglienza e integrazione tra popoli.

È invece più recente l’altro fenomeno che vede molti figli di migranti di prima o seconda generazione prendere parte da protagonisti alla scena musicale italiana rap o hip hop. Sono giovanissimi e con la voglia di raccontare il loro mondo sociale e il loro essere nuovi italiani con tutti i disagi che questo comporta. Dal vincitore del Sanremo 2011, Mahmood, e dall’italotunisino Ghali ad Antonio Dikele Distefano, in arte Nashy, «italiano di colore che dà colore all’italiano», fino a Bello FIGo, esponente del “lol rap”: sgangherato, demenziale e trash. Satira, turpiloquio e volgarità vomitate contro Salvini, leghisti e ultradestra.

Il “suono del mondo” si diffonderà a lungo, dal momento che nutre ancora oggi l’electro come il rap. Le popolazioni vittime di razzismo e di esclusione si appropriano delle arti come un’arma di riconoscimento dell’identità.

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