Insieme alla moglie, Syusy Bladi, da anni è un volto noto della televisione e attraverso il programma “Turisti per caso” ha visitato svariate e affascinanti mete. Il modo di raccontare queste avventure fu a suo tempo innovativo, ma può questo modello essere ancora valido nell’era dei social e del turismo di massa?

Chiunque può diventare un turista, non tutti nascono viaggiatori. Ce lo hanno insegnato Patrizio Roversi e Syusy Bladi, mitico duo che ha portato in giro per il mondo miliardi di telespettatori, promuovendo sempre un turismo sostenibile e rispettoso delle identità locali. Ospite della Scuola Superiore di Catania nell’ambito della rassegna Estate a Scuola e Porte Aperte, Patrizio Roversi ha dialogato con la vice-presidente della Scuola Superiore e del Teatro Stabile di Catania, Lina Scalisi, e con la direttrice del TSC, Laura Sicignano, ed ha presentato il numero zero di un nuovo progetto televisivo dedicato all’agricoltura. Lo abbiamo intervistato per scoprire come sta cambiando il modo di viaggiare e di raccontare i luoghi visitati.

Tra le numerose trasmissioni di successo da lei condotte va certamente menzionata “Turisti per caso”. Come è nato questo casuale incontro con l’universo dei viaggi? 
«In realtà non è nato per caso, ma dall’incontro nei primi anni ’90 con il giovane capostruttura di Rai 2 Giovanni Minoli, che girava l’Italia alla ricerca di nuovi artisti e linguaggi innovativi. In quel periodo io e Syusy Bladi gestivamo un varietà nel circolo Arci “Cesare Pavese” di Bologna un varietà che a Minoli piacque a tal punto da proporci una collaborazione con Rai 2. In quegli stessi anni io e Syusy abbiamo intrapreso un viaggio in India, portando con noi la prima telecamera portatile e semi-professionale. Al ritorno abbiamo montato il materiale grazie al nostro collaboratore, Giuseppe Ghinami, e siamo stati fortunati perché, per via di un improvviso sciopero del Tg2, hanno mandato in onda la nostra puntata zero di Turisti per caso, riscuotendo grande successo. Le puntate successive sono state animate sempre dalla medesima filosofia: raccontare per immagini e parole il viaggio di persone comuni realizzando una sorta di diario di bordo e creando identificazione nel pubblico. Dalla trasmissione poi è nata una community sul web che oggi raccoglie svariate decine di migliaia di itinerari in tutto il mondo».

Con questo programma avete rivoluzionato il modo di raccontare i viaggi. Da allora però questa narrazione è profondamente mutata, quali sono stati i principali cambiamenti?
«Per quanto riguarda il web, se all’inizio il sito era una vetrina che si mostrava e si raccontava alla gente che lo leggeva, ad essa si è pian piano sovrapposta l’esigenza di interazione, dapprima con i forum, poi con l’esplosione del fenomeno social. Ora, a mio avviso, sta tornando di moda il sito che informa e fornisce contenuti perché dopo l’ubriacatura da social, che ha stomacato parecchie persone veicolando fake news o chiacchiere fine a sé stesse, è rinata la necessità di informazione. Anche la narrazione del viaggio è cambiata, perché se i nostri primi resoconti erano ricchi di annotazioni minimaliste che facevano notizia, oggi l’omologazione e la nascita dei non luoghi hanno appiattito le differenze ed è necessario andare più in profondità, avere un obiettivo, e riconoscere la specificità e ricchezza del luogo che visiti. Certo, ci sono ancora località estranee alla globalizzazione, ma in linea di massima bisogna essere più accorti e andare in profondità nella narrazione. L’immagine del turista a bocca aperta che si stupisce delle cose più semplici è oggi impossibile».

Ogni viaggio cambia sempre la persona e il suo modo di percepire il mondo. Tra i tantissimi viaggi fatti quale ha cambiato di più la sua storia?
«Non è facile dirlo, perché quando viaggi devi essere capace di lasciarti andare e vivere il momento “hic et nunc”. Io invece penso continuamente ai posti da vedere, al programma da rispettare ed è difficile così farsi attraversare e cambiare dai luoghi visti. Il momento in cui prendo atto del viaggio è quando rivedo a casa le riprese per il montaggio. Ho avuto momenti di commozione davanti alle immagini che scorrevano sullo schermo, sorprendendomi di ciò che avevo visto dal vivo! Alcuni viaggi però mi hanno colpito particolarmente, come Buenos Aires. Un giovedì pomeriggio io e Syusy siamo andati alla riunione delle madri dei desaparecidos e abbiamo girato un filmato intervistandole, quella è un’esperienza che ti cambia così come il viaggio tra le case di sabbia in Yemen».

Come si è evoluto il modo di fare turismo e come cambierà?
«Il fenomeno più recente è il turismo di massa, terribile da diversi punti di vista e non solo per l’inquinamento ambientale. C’è ad esempio un inquinamento culturale ed economico, legato al fatto che questo turismo non ha ricadute positive sulle comunità locali perché è gestito dai grandi tour operator internazionali. Orde di turisti si aggirano per le grandi città al seguito di una guida con l’ombrellino, sono stanchi, si guardano intorno ma non percepiscono quasi nulla e praticano compulsivamente la fotografia, realizzando scatti che probabilmente nessuno guarderà mai. Il turismo di massa inquina anche dal punto di vista gastronomico: ricordo che ad Ischia mi capitò di mangiare pasta scotta in tre differenti ristoranti e quando alla fine chiesi al cameriere il motivo, lui mi rispose che l’isola era piena di tedeschi che amavano la pasta scotta. L’Italia è poi penalizzata da questo tipo di turismo perché i grandi tour operator sono stranieri e importano milioni di turisti nel nostro Paese, limitando la visita ad un giro per San Marco e una foto al Colosseo. Bisognerebbe drenare questa marea e poi distribuirla in piccoli rivoli nel tessuto italiano, tra gli incantevoli paesaggi interni che custodiamo. Ultimamente ho lavorato al progetto di Italia Slow Tour che intende proprio raccontare quest’Italia più provinciale e meno conosciuta».

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