Sospinti da normative sempre più ecosostenibili, stiamo rimettendo in gioco i nostri rifiuti e la loro stessa logica. Siamo disposti a farlo anche per gli sbagli?

Nell’era del riciclo non si butta più nulla. La produzione di plastica usa e getta si è scoperta ontologicamente insostenibile: la cannuccia da cui beviamo il drink in spiaggia ha pochi minuti (se non secondi) di vita ma 500 anni di latenza nell’ambiente. Mentre le industrie si attrezzano sempre più per il monouso biodegradabile, torna l’attenzione per lo scarto: bracciali, sedie e persino edifici nascono con materiali chiamati a vivere non più una sola vita ma molte altre per sfruttarne tutto il potenziale. Ecco, nell’era del riciclo, come dicevamo, non si butta più nulla. Neanche della vita. Neanche gli errori. Scartati dal costume puritano, non sono più disposti a restare sotto il tappeto insieme alla polvere: l’errore cessa di essere il sacchetto gettato nottetempo di soppiatto. Con le nuove normative a salutarci è uno stile di vita improntato sullo spreco e sulla perfezione. In che senso questo discorso vale anche per gli errori?

Vicende e saperi umani sono una sequela di errori. Ma nei vari ambiti intellettuali si è fatto fatica a concepire l’errore come possibilità di conoscenza e liberarlo dal senso privativo. Qualcosa cambia con il ‘900. Si piangono armi e bandiere, si studia l’uomo e si fa strada l’idea che la conoscenza proceda per trials and errors. In questo contesto Karl Popper, filosofo ed epistemologo, fa della falsificabilità e non della verificabilità il criterio che definisce una scienza: una teoria che non può essere confutata non è scientifica. Che significa? Che, udite udite, anche la scienza sbaglia. Non solo, ma proprio perché può sbagliare è scienza. «In effetti, è dalle nostre teorie più ardite, incluse quelle che sono erronee, che noi impariamo di più. Nessuno può evitare di fare errori; la cosa grande è imparare da essi», scrive in Conoscenza oggettiva. Per il viennese, «evitare errori è un ideale meschino». Le sue considerazioni si spingono oltre il laboratorio: il fallibilismo affermato in ambito scientifico è la base per una società libera a tollerante. Accettare i proprio errori e indagarli, concedersi la possibilità di sbagliare inseguendo il dubbio, è il primo passo per capire che siamo esseri in movimento fra due abissi, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, come intuì Blaise Pascal; è il primo grande passo per non “sprecare” e non buttare via relazioni. A ben vedere, non è proprio l’invito che ci rivolge la filosofia fin dal suo etimo? Filosofia significa amore per la sapienza. Quando amo una persona non la amo tutta intera, per quello che è? Come posso allora tagliare la sapienza e amarla a metà? Gli errori ci parlano e insegnano molto. Non sono che scelte con l’aggiunta di un giudizio. A volte hanno risultati controproducenti che ci spingono nella dialettica dei “se”: così impariamo che ogni azione ha una conseguenza e che se dentro certe conseguenze non stiamo bene occorre evitare certe azioni; altre volte si beccano gli “errori giusti” e si impara che l’inciampo può essere ciò che ti sposta lo sguardo altrove e dà una dimensione inedita alla tua vita.

Il culto del riciclo, la regina delle 8 “r” (rivalutare, ricontestualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre e riutilizzare le altre), non passa solo da borse, tappi e giocattoli ma anche dalle scelte: prenderne contezza significa far tesoro di tutto ciò che si intreccia con il nostro cammino da erranti. Ed errore è una parola piccola ma piena di “r”.

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