«Che mistero la fotografia. Un “fondo di bicchiere” della lente della macchina fotografica è rivolto verso l’esterno, mentre l’immagine proviene dalla nostra intimità, ci racconta, ci smaschera». Per Piergiorgio Branzi l’atto del fotografare rivela al soggetto il suo coinvolgimento nella realtà.

Nato a Signa, nel fiorentino, il 6 settembre 1928, Piergiorgio Branzi si avvicina alla fotografia nel 1952, in occasione di una mostra dedicata ad Henri Carier-Bresson a Palazzo Strozzi. Un incontro che lo segnerà per il resto della vita, rivelandogli quanto in profondità lo sguardo umano sia capace di indagare il mondo. Di lì a poco, l’acquisto di una Condor 35 mm, e un secondo, decisivo incontro: quello con il fotografo e pittore Mario Giacomelli, con cui stabilisce un rapporto non solo di amicizia, ma un sodalizio artistico importante. La sua passione per la fotografia si appaia a quella per i viaggi, specie nel Mediterraneo: in sella ad una moto o ad una Fiat 600 gira l’Italia e la Spagna, per concludere le sue peregrinazioni in Grecia, nel 1957.

Le sue fotografie conquistano il nostro Paese, ma anche l’estero. All’attività da fotografo si affianca quella da giornalista: viene assunto, infatti, dalla Rai e nel 1962 su incarico di Enzo Biagi si trasferisce a Mosca per diventare il primo corrispondente occidentale nella Russia sovietica. Rientra a Roma nel 1969, dopo un’esperienza a Parigi, dedicandosi ad alter espressioni artistiche quali la pittura e l’incisione.

Il suo sguardo colto non ha mai smesso di interrogarsi sulla connessione tra l’uomo e il suo ambiente, tanto da essersi guadagnato l’appellativo di “fotografo dell’essenziale”. Nei suoi scatti, testimonianze preziose dei vulcanici anni ’60 emergono storie di uomini e di terre attraverso immagini simbolo, di stampo quasi neorealista, con l’intento di restituire all’osservatore un ritratto veritiero della realtà vera, lontano dalle versioni “ufficiali” che troppo spesso, all’epoca, restituivano un’immagine parzialmente distorta.

L’immagine scelta è stata scattata in un vicolo di Comacchio, chiamata pure la piccola Venezia, in provincia di Ferrara, ha per titolo Il bambino dell’orologio. Siamo nel 1955, nello scatto si trova condensata tutta la forza dell’allegoria del tempo che fugge, con la ricchezza di significati che vi si nascondono. È la foto di un enorme orologio a cipolla, portato in spalla da un giovane, poco più che un bambino. Il quadrante è inquadrato frontalmente, il ragazzino da dietro, coi piedi sul lembo di una pozzanghera che fa da specchio.

Branzi stesso narra così cosa c’è dietro quello scatto simbolo di un’epoca: «Mi sorpassa un ragazzotto con sulle spalle un enorme orologio. Grande e rotondo, come quelli che si usava portare nella tasca della giacca appeso a una robusta catenella, un barbazzale d’oro per i benestanti. Funziona, sento il tic-tac, ma le lancette sono irrequiete, saltellano irregolarmente ad ogni sobbalzo. Convinco il ragazzo a fermarsi e farsi fotografare. C’è un’ampia pozzanghera sulla stradina, al centro di una quinta di muri corrosi. Il quadrante si riflette nello specchio d’acqua, si sdoppia, mi offre la chiave di lettura che cercavo di questo intrigante lembo di terra, dove il tempo sembra essersi fermato, sospeso in un silenzio d’acquario, una muta inquietudine metafisica. Altri ragazzi non si tirano indietro, vogliono farsi fotografare. Cerco altre soluzioni formali, ma avverto che i primi scatti hanno già dato la risposta che cercavo. È il tardo pomeriggio e la luce sta calando velocemente. Sopraggiunge un adulto che preleva il bizzarro orologio fuori misura, che segna il tempo con emblematica indefinitezza, lo porta alla sua naturale destinazione: insegna pubblicitaria di un orologiaio. Era un’epoca in cui ancora sembrava strano che qualcuno andasse in giro con la macchina fotografica: una rarità.  Mi sono regalato un momento di grazia. Di recente ho casualmente saputo il nome del ragazzo che portava l’orologio sulla spalla, ha una dozzina di anni meno di me, e sta bene. Mi ha fatto un immenso piacere».

A 93 anni Piergiorgio Branzi espone ancora le sue foto in interessanti mostre. Il suo libro più recente, Il giro dell’occhio (2015) raccoglie le immagini di sessant’anni di scatti.

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