Barche di fortuna si avventurano per le acque alla ricerca di un approdo che li salvi; stipate sottocoperta, vestite di stracci e aggrappate ad una valigia che somiglia ad una reliquia, anime disperate cercano una nuova terra su cui inginocchiarsi; quelli rimasti nei luoghi di partenza piangono una sorte incerta per le due sponde di questo viaggio. Sembra oggi, ma non è: sono i siciliani, non troppo tempo fa

Una valigia malandata, nella mano sinistra, contenente frammenti di vita da custodire gelosamente; un cappello rattoppato che pende, stanco, su una fronte disperata, viene tolto con la mano destra in forma di saluto, o forse semplicemente per manifestare la gioia di aver superato la traversata. La giacca è sinuosa, reca ancora le tracce di un’eleganza che fu, nonostante i rammendi facciano qua e là capolino, tra un bottone mancante e un colletto in disordine. A fare da cornice a questa scena, le mani delle guardie di frontiera che, indiscrete, si muovono sul volto per ispezionare, etichettare, marchiare con l’accettazione o il respingimento. Quel volto, che si era disteso alla vista dell’approdo, ora, spaesato si chiede quale sarà il prossimo passo. Il triste bozzetto delineato non raffigura le migrazioni contemporanee, nonostante possa essere benissimo tarato anche su di esse, ma gli arrivi di massa transoceanici di cui, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, gli italiani – ed i siciliani in prima fila – si resero protagonisti alla ricerca di un nuovo mondo che li accogliesse e li sottraesse alla miseria di una vita di stenti. Un viavai precario e incerto, che scatti della memoria come questo hanno l’obbligo di ricordarci quando la storia, per un motivo o per un altro, si offusca e ci fa perdere di vista la nostra condizione originaria.

Alla base del fenomeno migratorio, qualunque sia la sua declinazione storica, si stagliano coraggio, sofferenza e dispersione. Il coraggio di lasciare dietro ciò che si ama anche se è fonte di dolore, che sia un luogo, che siano persone o che siano semplicemente ricordi di felicità; la sofferenza di gettarsi in pasto al filo sottile della Provvidenza, che col suo oscillare, sinistramente simile a quello di un’imbarcazione improvvisata, rende difficile la salvezza dell’appiglio. E infine la dispersione, spesso il meno considerato tra i fattori determinanti che affliggono gli attori di un infinito movimento globale. Non solo per il manifestarsi di nuclei familiari spezzati, di sentimenti in diaspora a metà tra l’incentivo alla ricostruzione e i sensi di colpa di un abbandono definitivo, e della sindrome del sopravvissuto che attanaglia chi è abbastanza fortunato da inginocchiarsi su una nuova terra: la dispersione distrugge anche chi resta, chi vede gli altri allontanarsi verso l’orizzonte senza possibilità di accompagnarli, se non col cuore, chi, in mezzo al declino morale ed economico della propria patria natale, vede spegnersi anche l’ultima fiammella del calore umano, della forza vitale di chi ha provato a rimboccarsi le maniche e nonostante ciò contribuisce allo spopolamento. Dispersione, appunto. La descrive eloquentemente Luigi Pirandello nella novella L’altro figlio: una madre, l’anziana Maragrazia, morto il marito e perduti i figli sbarcati in America, si duole nella sua irrimediabile povertà, scrivendo in modo ossessivo lettere ai suoi ragazzi di cui non ha più notizie dal momento della partenza. Molti dicono che abbiano fatto fortuna: ma se così non fosse? Se quella lontananza rendesse infelici anche loro? «La povera vecchia mamma vostra vi promette – scrive in una lettera – e giura che se voi ritornate a Fàrnia, vi cederà il suo casalino» (ovvero il suo ultimo possedimento rimasto).

Gli emigranti appena arrivati vengono controllati ad Ellis Island
Gli emigranti appena arrivati vengono controllati ad Ellis Island

Torniamo allo scatto di prima e osserviamo attentamente gli occhi di coloro che lo animano: la paura dell’incertezza regna sovrana, eppure, negli sguardi corrucciati di chi si è appena cavato fuori da un sottocoperta stipato di disperati, di chi, arrivato a Ellis Island o a Buenos Aires, sente la propria libertà sfuggirgli tra le dita, si intravede una fiammella di furore: la ribellione di chi difende il proprio diritto ad essere artefice della propria sorte, di chi difende la dignità dello spostamento. In un’altra novella pirandelliana, Nell’albergo è morto un tale, una vecchietta, desiderosa di tentare l’avventura ma irretita dal non aver mai viaggiato, chiede continuamente ai suoi interlocutori «se per mare si soffre o non si soffre». La risposta gliela diamo noi: sì, per mare si è sempre sofferto e si continuerà a farlo. Basta ricordarsi che anche noi ci siamo costruiti con quei mattoni fatti di lacrime.

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