«Viviamo in un’epoca nella quale un algoritmo anonimo sa tutto di noi. Nel film questo enorme potere finisce nelle mani di Roberto, il personaggio che interpreto. Lui, che a malapena riesce a tenere insieme i pezzi della sua vita, entra in possesso di un computer in grado di leggere gli algoritmi e, di conseguenza,  i desideri di chiunque. Un superpotere, in sostanza, che finirà per usare in modo sbagliato, facendo enormi disastri». Così Roberto Lipari ha riassunto la cornice narrativa di “So tutto di te”, commedia che riflette sulla facilità con la quale, al giorno d’oggi, siamo disposti ad affidarci a strumenti di cui non abbiamo il controllo. La pellicola, che oltre al ruolo di protagonista – accanto a Leo Gullotta, Sergio Friscia, Roberta Rigano e Barbara Tabita – lo vede anche debuttare alla regia, è uscita ieri sulla piattaforma streaming Prime Video.

“So tutto di te” cerca di farci sorridere e al tempo stesso prova a stimolare una riflessione su un tema decisamente complesso come quello degli algoritmi e della tutela della nostra privacy. Come è nata l’idea di partire da qui? E come si sposa un argomento così serio con la leggerezza di una commedia?
«Tutto è nato quando, insieme agli sceneggiatori, eravamo alla ricerca di nuove idee per un prossimo film dopo “Tuttapposto” (commedia diretta da Gianni Costantino e di cui Lipari ha co-firmato la sceneggiatura, ndr). Mentre ci scambiavamo suggestioni e possibili argomenti da trattare, molte delle cose che ci eravamo detti ci venivano proposte come pubblicità sui nostri smartphone: ad esempio, un’offerta di viaggio per il luogo di cui stavamo parlando. Ci è apparso chiaro, allora, il fatto che, ormai, affidando le nostre informazioni ad uno sconosciuto, perché di questo si tratta nel caso dell’algoritmo, stiamo progressivamente perdendo la nostra capacità di scelta. Il capovolgimento comico ci è sembrata l’opzione migliore per affrontare la questione, e così abbiamo deciso di dare questo enorme potere ad un cretino, ovvero il personaggio che io interpreto».

Il film è, in un certo senso, uno spaccato di vita contemporanea che guarda alle conseguenze dell’eccesso da tecnologia. Tuttavia, nel corso della vicenda si instaura una curiosa convivenza con un elemento caratteristico della tradizione siciliana: il teatro dei pupi.
«Si tratta di un elemento centrale dal punto di vista narrativo: non soltanto perché a gestire il teatro, che fa da sfondo all’intera vicenda, è il nonno del protagonista (interpretato da Leo Gullotta) a cui lui è molto legato, ma soprattutto perché ho voluto utilizzarla come metafora regina di tutta la pellicola. Spesso, infatti, i veri pupi, senza che ce ne rendiamo conto, siamo noi, manovrati da una mano ignota. Grazie a questo elemento il film ha assunto anche un ulteriore tono, che definirei fiabesco. E quindi credo che, in fondo, si tratti proprio di una fiaba moderna di cui vado molto orgoglioso».

Oltre ai pupi, nella pellicola, c’è tanta Sicilia a partire dalla scelta di Palermo come location fino a quella di un cast composto da molti attori dell’Isola. Tra loro, spicca sicuramente Sergio Friscia a cui sei legato da un rapporto particolare. 
«Data la nostra scelta di ambientare tutto il film a Palermo, ci è sembrato naturale affidare tutti i ruoli a nostri conterranei e anche le musiche sono firmate da un siciliano, cioè Mario Biondi. Restare fedeli all’autenticità che volevamo per il film, del resto, è risultato semplice visto che nel cast ci sono attori che stimo moltissimo. Con Sergio, ad esempio, siamo legatissimi sin dai tempi di “Tuttapposto”: sul set di quel film ci conoscevamo da quattro giorni ma sembrava facessimo comicità insieme da 40 anni. Per non parlare di Leo Gullotta, attore fantastico che per me rappresenta un idolo sin da quando ero bambino». 

Questa è stata la tua prima prova alla regia. Un altro ruolo che si aggiunge a quelli per cui il pubblico ti conosce già, da quello di comico alla conduzione di Striscia La Notizia. In quale di queste figure ti rispecchi di più?
«Qualunque sia l’attività a cui mi sto dedicando non smetto mai di essere, innanzitutto, un comico. Questo vale sia quando mi accingo a scrivere una sceneggiatura sia che mi trovi in veste di inviato, oppure di presentatore, per Striscia. Non credo cambierò idea nemmeno quando mi proporranno di interpretare un ruolo drammatico. Il comico, oggi, è merce rara, ed è una professione difficile. Però a me piace giocare in questa squadra e vi sono troppo affezionato per rinunciare. Questa coerenza mi permette anche di parlare ad un pubblico trasversale. Me ne accorgo durante i miei spettacoli, quando vedo seduti gli uni accanto agli altri bambini e spettatori decisamente più in là con gli anni». 

Si dice spesso che l’Italia non sia un paese per giovani. Eppure tu sei l’esempio lampante di come talento e determinazione possano portare lontano nonostante le difficoltà. Quali sono stati i principali ostacoli che hai incontrato sul tuo cammino? E quali consigli ti sentiresti di dare ad un ragazzo che vorrebbe intraprendere questa professione?
«Dico semplicemente una cosa: bisogna provarci. Certo, potrebbe arrivare un punto della vostra vita in cui vi rendete conto che la strada intrapresa non ha sbocchi, ma i sogni vanno sempre inseguiti. Io a 24 anni lasciai Medicina per provare a fare questo mestiere, consapevole che poi sarei stato troppo grande per farlo in seguito. È andata bene, ma non era scontato. Mi sono rotto la schiena, certo, ma oltre alla bravura ci vogliono anche i giusti colpi di fortuna. Quindi, sì, ciò che mi viene da dire è: provateci. Sarà anche banale, ma, a volte, un po’ di banalità serve».


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