La quarantaquattrenne romana, voce storica di Phoebe di “Friends” e di Amy di “Futurama”, ci ha raccontato come è nata questa passione e i cambiamenti sopraggiunti nel settore con le nuove società di distribuzione on-line

Ha un sorriso dolce e spontaneo la doppiatrice Rossella Acerbo, sembra quasi imbarazzata di avere i riflettori di Etna Comics puntati su di lei, abituata per lo più alla penombra della sala di doppiaggio. Antidiva per antonomasia si mostra subito disponibile a una chiacchierata sulla sua professione, alla scoperta dei numerosi personaggi a cui ha prestato la voce. Da Drew Barrymore ad attrici del calibro di Marion Cotillard, Michelle Rodriguez, Jessica Biel. Rossella, all’anagrafe Ancidoni, conta in curriculum molti personaggi che hanno segnato un’epoca anche nel mondo delle serie tv come Phoebe di “Friends”, Veronica di “Shameless” o Gwen del telefilm fantasy “Merlin”. Non solo, fra le altre cose è stata anche Annette nel cartone animato “Sui monti con Annette”, Micia in “Hello Spank” e Amy Wong in “Futurama” solo per citarne alcuni, anche perché la lista è davvero lunghissima.

 Nel suo primo film “Mammina cara”, del 1981, è stata diretta da Renato Izzo; l’anno dopo ha doppiato Drew Barrymore in “E.T. l’extra-terrestre”, iniziando così la sua carriera. Le è mancato vivere un’infanzia normale?

«In realtà ho voluto fare questo lavoro fortemente, avevo il mito di mio fratello Sandro, più grande di me di diciotto anni, che era già un doppiatore famoso. Anche lui aveva iniziato a sei anni doppiando Michael Banks in “Mary Poppins”. I nostri genitori non facevano questo mestiere, mia madre era casalinga e mio padre fabbro, quindi ci siamo fatti da soli. Per me è sempre stato un vero divertimento, anche se ho dovuto insistere perché mia mamma non era d’accordo. Ovviamente ti toglie tanto, fai molti sacrifici perché devi studiare e lavorare quindi il tempo per giocare è poco. Io però ringrazio Dio perché in questi quarant’anni mi sono costruita una carriera grazie alle mie forze e soprattutto ho ancora la fortuna di fare un lavoro che mi piace».

A proposito di piccoli doppiatori, qualche anno fa ha aperto una scuola per bambini dai 6 ai 12 anni.

«Prima il doppiaggio era artigianato c’era la possibilità di impararlo sul campo perché c’erano i tempi, oggi non è più così. Le parti per i bambini però continuano a esserci e se tu non gli insegni, la dizione, la recitazione, la respirazione e il doppiaggio, diventa tutto più complicato. La scuola è nata da questa esigenza, io faccio anche la direttrice di doppiaggio e mi capita spesso di curare prodotti Disney dove i bambini americani sono tanti e tutti straordinari, per cui devono essere doppiati da voci altrettanto eccezionali. Con Simone Mori, Tiziana Avarista, Massimo De Ambrosis, Manuele Roma ed Elena Masini abbiamo deciso, nelle sale della CDC Sefit Group, di portare avanti questo progetto d’insegnamento. È stata una bella esperienza, anche se faticosa, che mi ha arricchito molto».

È sempre il direttore del doppiaggio a scegliere la caratterizzazione da dare al personaggio?

«Diciamo che il direttore di doppiaggio sceglie le voci ma poi deve sottoporle ai supervisor sia in campo internazionale sia nazionale».

In un’intervista però ha raccontato che per il personaggio del cartone “Futurama”, Amy Wong, ha deciso lei come impostare la voce.

«Erano altri tempi. Questo lavoro è cambiato tantissimo negli anni, prima era più vicino allo sceneggiato radiofonico. Ricordo che da piccola ho doppiato tante opere prime, soprattutto del periodo neorealista, in cui la sceneggiatura era scritta a posteriori e gli attori in originale pronunciavano solo i numeri. Ho avuto anche la fortuna di essere diretta da Sordi, Comencini, Zeffirelli, comunque in quegli anni il lavoro era più creativo. Con l’avvento del panorama internazionale, delle Major e della globalizzazione, il prodotto ha iniziato a essere sempre più standard. In tutti i paesi si devono seguire determinati canoni, come l’aderenza vocale oltre a mantenersi fedeli sia dal punto di vista linguistico sia da quello recitativo. I “Robinson” ad esempio, in cui doppiavo Vanessa, furono un esperimento interessante. Il titolo originale “The Cosby Show” fu cambiato e le scene contestualizzate in ottica italiana per far ridere di più, mentre adesso ci si conforma maggiormente perdendo molti riferimenti».

In genere quanto tempo s’impiega a doppiare un film o una serie TV?

«Poco tempo. Ci sono alcune serie che sono day-by-day come “Il Trono di Spade”, noi la doppiamo e la settimana dopo va in onda. Un dramma, non ci sono raffreddori, mal di testa o problemi privati che tengano».

Il digitale in questo senso ha peggiorato il meccanismo?

«Sì. Pro Tools si proponeva di migliorare questo lavoro, di fatto lo ha solo velocizzato in questo modo però è tutto estremizzato e talvolta si perde anche la qualità».

Le è mai pesato essere riconosciuta solo come voce e mai come attrice?

«Non ho fatto doppiaggio perché sono un’attrice mancata, mi piace stare nell’ombra e avere una vita normale. Le volte in cui mi riconoscono, non nascondo di essere in imbarazzo».

C’è un’attrice che ha doppiato alla quale si sente particolarmente legata?

«Per forza di cose Drew Barrymore. Ho iniziato a doppiarla a sei anni con “Fenomeni paranormali incontrollabili” ed ho continuato fino a oggi con “Santa Clarita Deit”, in cui siamo due signore di 44 anni (ride)».

L’hai mai conosciuta personalmente?

«No, mai e non so neppure se voglio farlo. Ho paura, se poi è antipatica? Non credo la doppierei più con lo stesso amore».

Sono molti i ragazzi e gli appassionati che preferiscono seguire le serie e i film in lingua originale, pensa che il doppiaggio sia destinato a morire?

«Da quando sono piccola sento dire che il doppiaggio è finito. Netflix addirittura ha effettuato dei sondaggi per capire se poteva mandarci tutti a casa e guadagnare di più facendo a meno di noi; è emerso però che il 99% dei prodotti viene visto non in lingua originale. Non tanto perché siamo un popolo d’ignoranti, come spesso vogliono farci credere, ma perché con il doppiaggio apportiamo un valore in più al prodotto. Inoltre, non sempre capita di doppiare Drew Barrymore alle volte ci sono delle attrici inascoltabili che parlano in lingue a cui non siamo abituati come il finlandese o il polacco lì diventa più complicato. Fermo restando che i sottotitoli distolgono l’attenzione dall’immagine, dal viso; l’attore recita anche con la mimica facciale e il corpo e se tu guardi cosa c’è scritto sotto, questo si perde. Credo fermamente però, che quello che viene fatto per bene non morirà mai».

Cosa suggerisce a un giovane che si vuole avvicinare a questa professione?

«Consiglio sempre di iniziare da bambini perché la richiesta è maggiore, mentre da adulti è più difficile. In generale dico di stare attenti, perché esiste anche chi non è riuscito a fare il doppiaggio ad alti livelli e apre scuole per racimolare soldi. Io ho un figlio di 20 anni e una di 14, per cui mi approccio con profondo rispetto alla giovinezza. In questa professione non basta saper fare le vocine o avere una bella voce; è un cammino lungo lastricato di sacrifici. Adesso poi con l’avvento delle Major siamo blindati per cui è sempre più complicato anche per chi è preparato riuscire a farsi sentire o emergere».

 

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