Maltrattato ed emarginato soltanto per il colore dei capelli: è la triste vicenda, nella Sicilia di fine ‘800, del famoso personaggio nato dalla penna di Verga, simbolo della paura che le differenze possono generare. Un simbolo che, però, nell’aver conosciuto e sopportato il dolore della vita, nell’essere rimasto unico fino alla morte, è il più autentico degli esseri umani

Le apparenze ingannano. La saggezza popolare ha da sempre tenuto in dovuta considerazione questo concetto. Eppure, nel passato – ma il presente non è del tutto estraneo a questa dinamica – le apparenze sono state il metro di giudizio per affibbiare un’etichetta a chi appariva diverso e distante, per intrappolarlo in un determinismo senza via di uscita. Bastava poco per essere schedato come appartenente ad un certo schieramento piuttosto che a un altro: l’abbigliamento, il sesso, la classe sociale. In certe comunità, perfino il colore dei capelli poteva rappresentare una colpa. È quanto accade nella celebre novella verghiana Rosso Malpelo, compresa nella raccolta Vita dei campi del 1880, dove la gravissima colpa del giovane protagonista è essere nato coi capelli rossi, visti quasi come segno del demonio, di una selvatichezza incontrollabile e pericolosa. A testimonianza di un destino che sembra segnato fin dalla nascita – siamo pur sempre in ambito verista – Malpelo lavora in una cava di rena rossa: non si tratta soltanto di una fotografia della Sicilia imbestialita di fine Ottocento, dove i “carusi” venivano barbaramente sfruttati per l’estrazione di materiali da asfittici cunicoli sotterranei, ma anche di una cicatrice, un marchio di diversità. Nel bene e nel male.

Una diversità accettata, dal ragazzo, in un misto di rassegnazione e sdegnoso orgoglio: maltrattato dalla madre, alla quale stanno a cuore soltanto i pochi spiccioli che Malpelo riesce a racimolare con la massacrante attività alla cava, e rimasto ancor più solo dopo la morte del padre (l’unico con cui riusciva ad aprirsi e dal quale eredita gli strumenti di lavoro), il giovane sventurato si chiude in un assordante silenzio, fino a quando alla cava giunge lo smunto e claudicante Ranocchio, ancor più indifeso di lui. Pian piano Malpelo ne diventerà un po’ il padre putativo, prendendosene cura nel proteggerlo dalle ingiurie degli altri operai e rimettendolo in sesto dai vari acciacchi, ma anche iniziandolo ad un’educazione del tutto peculiare: Malpelo, infatti, picchia spesso l’amico, nel tentativo disperato di fortificarlo a tal punto da renderlo capace di sopportare le angherie che la vita, per qualche misterioso e perverso disegno, gli ha riservato. Poco tempo dopo, Ranocchio morirà di tubercolosi: ben presto sarà seguito dallo stesso Malpelo, disperso nell’esplorazione di una galleria abbandonata. Fino al momento della morte, il ragazzo dai capelli rossi non conosce che sofferenza fisica e morale, rifiuto, miseria e non può far altro che trasmettere questa carica di negatività, di nichilismo, allo sperduto Ranocchio. Non è uno sfogo, non è vendetta di un debole contro qualcuno ancora più debole: è la lezione di vita più preziosa che potesse dargli. In un mondo, quello siciliano di fine XIX secolo, dove la sopravvivenza quotidiana somiglia ad una caccia nella savana, dove il ciclo naturale travolge chi prova a sottrarvisi, Malpelo ha compreso che la diversità può essere un valore, una lente attraverso cui guardare il mondo come nessun altro sa fare. Come scrive Verga, «era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro […] Non si lamentava però». Anzi, con una profondità sconvolgente, diceva: «A che serve? Sono malpelo!».

L'ingresso di una cava di rena rossa
L’ingresso di una cava di rena rossa

Dopo la scomparsa nell’oscurità delle viscere minerarie, una leggenda rimane a turbare le vite dei lavoratori della cava: che Malpelo, ogni tanto, risalga dalle profondità e mostri i suoi “capelli rossi e occhiacci grigi”. Non è affatto un caso: la diversità fa estremamente paura e la superstizione è un gretto ma efficace modo per non affrontarla. Ma la vera libertà non risiede nel rifuggirla, nel perseguitarla fino a farla scomparire dai nostri orizzonti, nell’abbarbicarci nelle nostre convinzioni. Colui che sperimenta la libertà autentica altri non è che Malpelo stesso, che, benché patisca un dolore immotivato, rimane saldo nella sua unicità, trovando addirittura la forza di trasmettere a Ranocchio il segreto dell’esistenza. E anche nel momento più tragico, quello della morte, Malpelo sembra rifiutare di consegnarsi ai suoi carnefici, scomparendo nel nulla e lasciando di sé soltanto un ricordo, anche se distorto. Ad eterno monito verso un mondo barbaro che non lo ha mai piegato del tutto né lo ha mai fiaccato nel suo indomabile spirito. Che non lo ha ridotto a nullità, che non ha saputo annullare la sua specificità. La specificità di chi ha sentito in maniera più acuta il dolore della vita e lo ha affrontato a testa alta. Questa è la libertà di Malpelo.

Speciale Verga

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