La fotografa americana, una delle figure più interessanti e controverse del panorama mondiale, ha passato la sua vita ritraendo gli emarginati, i disadattati, i fuori posto. Perché, a suo dire, è nella diversità che si nasconde ciò che va oltre la superficie

L’occhio dell’osservatore, per una questione di modalità percettiva intrinseca all’atto stesso del vedere, si porta istintivamente da una parte all’altra della foto, cercando di rilevare le differenze più che le analogie. Secondo alcuni, l’immagine sembra improvvisamente animarsi, assumere una sua forma e un pathos straniante del tutto peculiari come se brillasse di luce propria.

Cos’è un’immagine?  La cristallizzazione di un istante che non potrà più ripetersi. Facciamo fotografie per rendere eterno l’attimo. La fotografa Diane Arbus, statunitense di origini polacche, era convinta che ci siano cose che nessuno riesce a vedere prima che vengano fotografate. Possiamo tutti trovarci di fronte ad una stessa immagine della realtà e guardarla, ma non tutti vedremo la stessa cosa.

Forse qui sta la differenza tra chi fa fotografie da mettere in un album di ricordi e chi, come l’artista, attraverso la fotografia vede qualcosa che a noi è sfuggito, qualcosa che era sotto i nostri occhi, ma non abbiamo colto. Le foto si fanno con occhi, cuore e testa. Ci vuole uno sguardo speciale, straordinario. Uno sguardo capace di vedere ciò che a noi sfugge.

Diane Arbus, nata nel 1923, è stata una delle figure più interessanti ed enigmatiche della fotografia del XX secolo. Per tante sue scelte di vita è ancora avvolta nel mistero. Si è avvicinata alla fotografia spinta da una sana  curiosità: dopo un po’ di anni dedicati, alla moda comincia a ritrarre  soprattutto i “freaks” di New York e dintorni, cioè gli emarginati. Si suicida  a 48 anni nel 1971, quando molti la ritengono  una delle più grandi maestre di fotografia del secolo. «Io mi adatto alle cose malmesse – un giorno affermò – non mi piace metter ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me, io non la metto a posto. Mi metto a posto io». I suoi scatti inquietano, non ti lasciano tranquillo.

L’immagine scelta è stata scattata nel 1967, ritrae due gemelle identiche affiancate una all’altra e quasi sovrapposte, cosicché a una prima occhiata possano sembrare gemelle siamesi che condividono un braccio. Subito salta all’occhio un’asimmetria fra le due bambine, la bambina di destra rispetto all’altra, pur essendo sullo stesso piano, sembra retrocedere di un passo.  Il nero del vestito e dei capelli delle bimbe si contrappone agli elementi bianchi, al muro di sfondo e soprattutto agli occhi vitrei dei due soggetti sembrano presagire tempeste e drammi.

Si nota, poi, che la gemella a destra ha un accenno di sorriso e lo sguardo, seppur vitreo come l’altro, è stranamente più luminoso e aperto del suo corrispettivo che, viceversa, appare accigliato, stanco, quasi spento. L’occhio dell’osservatore, per una questione di modalità percettiva intrinseca all’atto stesso del vedere, si porta istintivamente da una parte all’altra della foto, cercando di rilevare le differenze più che le analogie. Secondo alcuni, l’immagine sembra improvvisamente animarsi, assumere una sua forma e un pathos straniante del tutto peculiari come se brillasse di luce propria. In tutte le foto della Arsus, i personaggi guardano direttamente verso l’obiettivo della macchina fotografica, consapevoli di essere ritratti, con una inquadratura, quasi sempre, centrale, che non tiene conto delle regole di composizione e con l’intenzione di produrre nello spettatore paura e vergogna. Per mettere ancora più in evidenza i difetti delle persone ritratte. Diane usa il cosiddetto “flash di riempimento” per evitare ombre inopportune ed è considerata una pioniera nell’utilizzo di questa tecnica.

Lavora di giorno e di notte per le strade insicure di New York , come scudo la sua immancabile Rolleiflex. Mangia crudo per non perdere tempo. Ricerca i suoi soggetti nei  sobborghi, negli spettacoli di quart’ordine legati al travestimento, scopre povertà e miserie morali, ma soprattutto fa diventare il centro del proprio interesse i cosiddetti “Diversi”. Diversità, che, anzi, per usare le sue parole  scritte in un compito per casa durante un seminario su Platone, sta nelle cose di tutti i giorni: «Vedo qualcosa che sembra meraviglioso; vedo la divinità nelle cose quotidiane».

Nel periodo di più intenso lavoro e di gratificazione, improvvisamente  sembra perdere il controllo della situazione. Inizia ad usare psicofarmaci e poi delle droghe. Continua a stupirsi della realtà e a lavorare, ma lei non c’è più. È come se le fotografie le scivolassero tra le dita, come sabbia. La sua carica creativa sembra arrestarsi e lei si trova, all’improvviso, al di qua dello specchio.

Diane si suicida il 26 luglio 1971, ingerendo un’ingente dose di barbiturici e tagliandosi le vene nella sua vasca da bagno: è stata la prima donna americana a esporre alla Biennale di Venezia, esattamente un anno dopo la sua morte.

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