Tra i nomi di origine greca che sono pervenuti fino al nostro tempo, ce n’è uno che instilla con naturalezza un senso di tragica e fatale bellezza. Giacinto – naturalmente con la sua variante al femminile – è, infatti, sinonimo di nobile fragilità. La materializzazione fonetica di un sogno irrealizzabile, ma non per questo meno splendido. Un inno alla perseveranza del sentimento oltre gli ostacoli più insormontabili dell’esistenza. Era il nome, secondo il mito, di un affascinante principe spartano, così splendido nel suo aspetto da innescare una feroce contesa tra divinità. Era stato Apollo a prevalere su Zefiro, dio del vento dell’ovest. Ma proprio quando l’unione tra i due sembrava ormai consacrata, la furia della vendetta e le bizze del destino si erano messe di traverso. E così, mentre il dio del sole e il suo amante si allenavano nel lancio del disco in vista delle Olimpiadi, un lancio deviato dall’intervento di Zefiro colpì il giovane spartano alla tempia, causandone la morte. Invano Apollo aveva tentato il miracolo. Ma prima che Giacinto esalasse l’ultimo respiro, lo aveva tramutato nello splendido fiore dal manto porpora acceso che ammiriamo oggi. Apparenza armonica di una distonia lancinante, capace di risuonare stridulamente a millenni di distanza. Nella controparte, altrettanto sventurata, che Luigi Capuana rese protagonista del romanzo Giacinta, pubblicato nel 1879. Una vicenda paradigmatica, quella tessuta dall’autore originario di Mineo, che esula ripetutamente dal solco verista dell’impersonalità per avventurarsi in intricate ed empatiche analisi psicologiche, fino a divenire un manifesto senza appello non soltanto della condizione femminile di fine XIX secolo, ma anche delle colpe di una società che, tuttora, in determinati contesti e in determinate forme, continua a macchiarsi della medesima iniquità.

Fin dalle prime battute dell’opera, infatti, la giovane Giacinta ci appare come una vittima predestinata. La cui unica colpa, il cui unico marchio di infelicità, è essere donna. Non è un caso che l’intreccio narrativo – e dunque la parabola esistenziale della protagonista – prenda le mosse da un conclamato episodio di violenza: disprezzata dalla propria famiglia, che la considera come un peso economico da piazzare, la ragazza rimane vittima degli abusi del factotum di casa. A nulla, in seguito, vale il suo amore per l’impiegato Andrea Gerace: le circostanze la costringono a sposare il meschino conte Grippa. Un’unione infelice, imposta, innaturale, che la conduce, questa volta clandestinamente, nuovamente tra le braccia di Andrea, da cui Giacinta finisce pure per avere una bimba. Un evento che presto si traduce nell’inizio di un nuovo tormento, questa volta doppio: la donna decide di non rivelare la verità al marito per sottrarre la figlia al ludibrio e al ripudio che ne conseguirebbero, per evitare il medesimo calvario della sua giovinezza. La madre di Giacinta, turbata dalla tresca che potrebbe generare uno scandalo, allontana Andrea dalla vita della figlia. Ed è qui che, attraverso un ultimo, disperato tentativo, si innesca la tragedia finale. La protagonista offre infatti al suo amato il denaro che la sua condizione di contessa le permette di gestire, purché egli rinunci al suo lavoro per dedicarsi interamente al loro sentimento. L’uomo rifiuta, forse ferito nel suo insulso orgoglio, forse spaventato dalle dimensioni assunte da quella a causa della difterite. Antipasto drammatico di un finale carico di pathos, di rimpianto e di sconvolgente grettezza: «Andrea si tirò da parte, per lasciar passare quei carri che andavano via pesantemente, facendo dondolare le loro lanterne di tela, visibili appena tra le ruote nere, dietro le gambe dei cavalli… Qualcosa di funebre, di malauguroso… Però aveva un bel dire: — Voglio essere forte! Già tentennava nuovamente, già si piegava a transigere: — Perchè aveva promesso?… Povera Giacinta!… Pareva così rassegnata! In quel momento lo attendeva smaniosa, impaziente… E tornò addietro, ondeggiando fiaccamente fra l’andare e il non andare: — È già tardi… Pioviggina. Son tutto fradicio! Andrò domani. Mi scuserò!… La mattina dopo, quando la signora Emilia, che non sapeva nulla, gli disse: — È morta la contessa Grippa: l’hanno trovata morta in camera, — Andrea ne fu atterrato, come se quella voce l’avesse accusato d’assassinio. — È morta! Piangeva con la testa fra le mani, i gomiti sul tavolino, guardando sbigottito il ritratto di lei. — È morta! Non poteva crederlo. Gli pareva impossibile! E intanto sentiva penetrarsi da un occulto senso di sollievo».

È l’affresco di un trauma che diventa paradossalmente senso di colpa. La sensazione di essere sbagliati per il solo desiderio di inseguire la cosa giusta. Il brutale disvelarsi di un’ipocrisia che scredita la vittima e riabilita i carnefici. È la gabbia di chi sogna di mordere la libertà, di amare per davvero e non per convenienza. Lo stigma di chi si agita tra le pieghe della storia e delle imposizioni culturali in attesa di scoprire se c’è posto per l’eccezione. Il fuoco sacro di un giacinto profumato che sfiorisce nel corpo ma non nella memoria.

Il nostro impegno è offrire contenuti autorevoli e privi di pubblicità invasiva. Sei un lettore abituale del Sicilian Post? Sostienilo!

Print Friendly, PDF & Email