C’è un momento, nella vita di alcuni scrittori, in cui la loro vicinanza al concetto di immortalità si rende misteriosamente tangibile. In cui l’afflato letterario che li ha condotti per tutta la vita non appare più soltanto come uno sforzo emotivo ed intellettuale del singolo, ma come il riverbero di qualcosa di più grande, come il canto di un’intera collettività che spesso ignora la sua stessa dignità poetica. Si riconosce, quel momento, quando la minuzia del racconto si trasforma in essenziale. Quando l’apparente grigiore del prosaico si rivela essere la culla del fantastico. Quando le litanie della consuetudine di fanno annunciatrici di novità. Perché l’immortalità è una parola sospesa che rifiuta di lasciarsi contaminare, un insieme di frammenti che si stringono insieme fino a diventare ricordi di inestimabile valore. E così, nella lente degli scrittori, di quelli che hanno affinato le capacità di osservazione del loro spirito, appariamo attraversati da ciò che è stato e da ciò che sarà. Veniamo tratteggiati con nome e cognome, lineamenti e fattezze, desideri e paure, pur non essendo nominati, pur rimanendo sconosciuti. Appariamo, in quanto semplici uomini condannati dal destino all’oblio, immortali a nostra volta. Foglie ingiallite che il vento non lascia posare sul suolo. Per tali ragioni Giuseppe Bonaviri non può che essere annoverato in questa ristretta cerchia di straordinari interpreti della letteratura: non in virtù di un Nobel sfuggito per appena un voto (quello del 2004 andato poi alla austriaca Elfriede Jelinek) o degli autorevoli giudizi espressi dai da sodali come Calvino, Vittorini e Manganelli fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2009. Ma perché dalla sua Mineo seppe guardare al mondo con la chiarezza di un cristallo. Perché nelle amorevoli e metamorfiche peripezie della sua Sicilia si scorge ancora un’armonia che sa di infanzia, di scoperta, di insopprimibile ansia d’infinito.

E già ripercorrendo i primi passi compiuti dal suo ingegno, viene in mente quella definizione che da anni è stata mirabilmente associata alla produzione di Gabriel García Márquez: realismo magico. Lo stesso che cominciò a spirare nella sua anima nei giorni della giovinezza, quando, ispirato dalla celeberrima pietra della poesia dell’altopiano di Camuti, presso la quale, fino a metà dell’800, aspiranti poeti si dilettavano in agoni dal sapore antico e agreste, il suo immaginario cominciò a nutrirsi di un’apertura quasi cosmica nei riguardi della natura e, in generale, dell’universo. Di un pressante bisogno di trovare risposta (e conciliazione) allo scandalo della morte, di attingere alla dimensione dell’ineffabile senza perdere di vista la sostanzialità del dolore, della materialità. «Se noi – ebbe a dire in un’intervista rilasciata qualche anno prima della sua morte – potessimo raccogliere tutte le ossa di miliardi e miliardi di persone morte e lanciarle con dei razzi – oggi facili da avere – nel sistema planetario, tutte queste ossa (per darne un valore cosmico divino) diventerebbero miliardi, miliardi e miliardi di piccoli satelliti di Mercurio, di Marte, ecc. E io spero solo che la morte valga nel senso, non della memoria che lasciamo agli altri, ma d’un qualcosa che realmente ci fa sopravvivere come unità pensante, anche se per poco tempo». È il volto di un tempo che scorre inesorabile, che talvolta si avvita su sé stesso, ma senza mai travolgere del tutto. È l’iterazione di sentimento secolare che non esaurisce mai la sua carica, ma, anzi, trae continuamente nuova vita ad ogni movimento. È la Sicilia dei mondi senza confini, della tradizione che riafferma sé stessa senza chiudere la porta alla modernità, della miseria che si fa vanto, della saggezza che mette radici tra le lacrime dei disgraziati, che cerca conforto, senza mai liberarsi del suo atavico scetticismo, nello spazio di una fiaba, nella durata di un racconto. Il ritratto di una vita che tra mille ristrettezze tenta di farsi largo fin dal suo romanzo d’esordio Il sarto della stradalunga (1954), che si incunea in La beffaria (1975) e che sfocia in una prorompente sintesi nella raccolta L’infinito lunare (1998), in cui all’angoscia e alla solitudine si mescola un sottofondo di dolce purezza. Il tentativo utopico ma necessario di vivere il “qui e ora” volgendo lo sguardo dalla parte opposta.

Negli anfratti più oscuri di queste caverne esistenziali, anche grazie a Bonaviri, siamo ancora tutti impegnati. Convinti che l’ignoto, prima ancora che una meta da raggiungere, sia una parte di noi stessi da ascoltare più attentamente. O con cui fare pace. Perché, in fondo, «l’uomo è una cellula, ma è una cellula importante in quanto con la sua intelligenza riesce a entrare nei misteri del mondo».

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