Alcuni studiosi lo hanno definito un wicked problem, ovvero una questione talmente aggrovigliata da risultare irrisolvibile. E in effetti, a considerare tutte le complessità legate al cambiamento climatico e cosa implicherebbe arginarne gli effetti più nefasti, si potrebbe essere tentati ad essere d’accordo con quella definizione e gettare in alto le braccia con desolata rassegnazione. Ad esempio, nel 2015 i grandi del mondo hanno firmato gli accordi di Parigi, stabilendo la necessità di evitare un innalzamento delle temperature medie oltre 1,5°C e impegnandosi a limitare le emissioni di CO2, uno dei maggiori responsabili della crisi climatica. Ma come far coesistere tale imperativo con le necessità di sviluppo economico dei Paesi del sud del mondo a cui viene chiesto di rinunciare all’energia a buon mercato offerta dai combustibili fossili? E poi, in che modo possiamo convincere chi vive nella parte più ricca del mondo a rivedere il proprio stile di vita in nome di un problema del quale adesso si scorgono appena le avvisaglie ma che stravolgerà la vita di oggi chi non è ancora nato? E se gli interrogativi potrebbero moltiplicarsi, il tempo per trovare delle risposte è ormai agli sgoccioli. Il 20 marzo, il gruppo di scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU ha pubblicato il suo ultimo rapporto sullo stato della crisi climatica. Migliaia di pagine e dati, per lanciare un ultimo avvertimento sulle catastrofiche conseguenze dell’inazione per milioni di persone a meno di una risposta globale e immediata. «Il pianeta ha bisogno di una risposta al cambiamento climatico su tutti i fronti: Everything, everywhere, all at once» ha riassunto il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres. Ma in che modo questa chiamata alle armi può tradursi in azioni concrete? E come uscire dall’impasse della complessità paralizzante? Ne abbiamo discusso a Catania la professoressa statunitense Amy Myers Jaffe, in occasione dell’evento “Facing Climate Change”, che l’impact community hub catanese Isola ha organizzato, in collaborazione con il Consolato Generale USA di Napoli e altri partner, all’interno del festival “Make in South” la scorsa settimana, coinvolgendo in un workshop alcuni studenti internazionali.​​ La studiosa è docente e amministratrice delegata del Climate Policy Lab della Tufts University Fletcher School ed una delle maggiori esperte internazionali di politiche energetiche e di sostenibilità. 

Di fronte all’urgenza di ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili, in molti ripongono le proprie speranze nell’innovazione. Lei stessa, nel suo ultimo libro “Energy Digital Future”, suggerisce che nel prossimo futuro il suo ruolo sarà decisivo. Ma la tecnologia potrà, da sola, salvarci?
«Potrei rispondere dicendo che negli Stati Uniti stanno sviluppando delle nuove batterie che saranno in commercio tra due anni e renderanno più efficienti gli impianti di produzione di energie rinnovabili. Oppure parlando di un’azienda lanciata da un ex ingegnere della Tesla che ha ricevuto un ingente finanziamento dal governo americano per riciclare abbastanza cobalto dai dispositivi elettronici da soddisfare il fabbisogno dell’industria automobilistica. È vero che queste tecnologie saranno sempre più economiche ma potranno aiutarci solo se le useremo nel modo giusto. La consegna a domicilio degli e-commerce è più efficiente rispetto allo shopping tradizionale. Invece di andare tutti in negozio in auto, un solo veicolo porta la merce a ciascuno. Ma se nel frattempo l’industria dell’abbigliamento produce il 30% in più perché getta via tutti i vestiti che noi rispediamo indietro, allora non abbiamo risolto davvero il problema. La gente non ama sentirselo dire, ma abbiamo bisogno di un cambiamento radicale non solo nelle infrastrutture tecnologiche ma nel modo in cui viviamo».

Eppure, a molti cittadini, soprattutto quelli dei paesi più ricchi, il cambiamento climatico appare ancora come una questione che, seppur grave, non giustifica cambiamenti immediati.
«Innanzitutto ricorderei loro che gli effetti del cambiamento climatico sono già tra noi e ci riguardano da vicino. Pensiamo solo alle ondate di calore in Europa e i devastanti incendi, oppure alla questione migratoria innescata dalle condizioni invivibili di alcuni Paesi africani e mediorientali.  Dovremmo forse aspettare che la stessa esistenza umana sia minacciata prima di fare davvero qualcosa? Forse l’approccio giusto è trattare il cambiamento climatico alla stregua di una guerra da cui metterci al riparo». 

In che senso?
«Ad esempio, potremmo far tesoro di quanto imparato dall’Europa durante questo inverno e cambiare il nostro rapporto con le fonti energetiche. Grazie ad una rapida virata verso le energie rinnovabili siete riusciti a far fronte al taglio nelle forniture di gas. La lezione è che, nonostante i sacrifici in termini economici e necessari sostegni a imprese e famiglie, è stata messa in atto una piccola rivoluzione. Se riuscissimo ad affrontare in modo altrettanto energico il cambiamento climatico faremmo progressi decisamente più rapidi».

Amy Myers Jaffe insieme ad un gruppo di studenti internazionali durante l’evento tenutosi presso Isola.Catania | Ph. Giorgio Di Gregorio

Crede sia davvero possibile convincere milioni di persone a cambiare il proprio stile di vita?
«Sarei molto pessimista se non avessi sotto gli occhi l’esempio trasmesso dalle nuove generazioni e il loro modo di guardare il mondo. Per i giovani di Hollywood, ad esempio, è diventato motivo di orgoglio acquistare abiti usati acquistati nei negozietti di seconda mano del quartiere e indossarli finché non sono del tutto logori. Questi ragazzi non hanno solo il merito di essersi opposti allo spreco, ma anche di avere inventato una nuova idea di cosa sia degno di essere indossato che si allinea con i nostri doveri nei confronti della questione climatica. Qualcosa di simile sta accadendo in Brasile. In un periodo nel quale gli atti di protesta per la catastrofe del disboscamento in Amazzonia erano altamente rischiosi, un crescente numero di persone ha scelto una diversa forma di dissenso. Quella di optare per una dieta vegana, a dispetto del valore quasi identitario che il consumo di carne bovina ha in quel paese».

Gli esempi che ha citato sembrano suggerire che occorra qualcosa in più rispetto ad operare semplici scelte di consumo alternative.
«Credo dobbiamo venire a patti con il fatto di vivere in una società globale, in cui un evento che accade distante da me avrà conseguenze dirette sulla mia vita. Si tratta, in altri termini, di pensare in termini di equità e di non ricadere in una posizione simile a quella di Vladimir Putin. Dal suo punto di vista, ad esempio, il cambiamento climatico è qualcosa da cui trarre vantaggi. Infatti, nonostante lo scioglimento del permafrost su cui poggiano le infrastrutture dell’industria del gas le renderà inservibili, continua ad ostacolare la lotta al cambiamento climatico a diversi livelli da un punto di vista geopolitico. La ragione è che esso porterà immensi benefici al comparto agroalimentare russo».

Restando in tema di politica internazionale. L’ultimo rapporto dell’IPCC ha invocato un’azione urgente dei governi per evitare conseguenze rovinose. A suo avviso, in quali direzioni bisognerebbe agire?
«Dobbiamo immaginare la risposta al cambiamento climatico come composta da varie sfide. È necessario pensare a cosa fare per mitigare le emissioni di CO2, ma anche a come aiutare le società a rispondere agli eventi climatici, sia che si che si tratti di eventi come un’ondata di caldo, sia di qualcosa di più catastrofico come ciò che accade in Pakistan. La difficoltà sta nel fatto che i fondi di cui abbiamo bisogno per rispondere a livello globale eccedono i mille miliardi di dollari e il supporto che le economie sviluppate di Europa, Stati Uniti e Giappone riesce a dare si aggira intorno a cento miliardi l’anno. Inoltre dobbiamo tenere presente il fatto che molti dei paesi più danneggiati dalle conseguenze del cambiamento climatico sono anche quelli a basso reddito e che, per di più, versano in condizione di profondo debito. Anche qui si ripropone il problema dell’equità. Credo che parte della risposta stia nel reimmaginare il ruolo della Banca Mondiale e del debito in un senso più vicino a quanto fatto al termine della Seconda guerra mondiale».

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