Senti tua la causa ambientale? Probabilmente soffri di “solastalgia”

Negli utimi anni sempre più persone, giovani e non solo si sono recate nelle piazze di tutto il mondo per manifestare contro le inadeguate risposte politiche al cambiamento ambientale. Ma cosa spinge così tante persone di paesi eterogenei a picchiettare per le strade delle città? I dati su consumo di acqua e di combustibili fossili, perdita di biodiversità, alterazione dei cicli di fosforo e di azoto, erosione del suolo, innalzamento della temperatura, da soli non basterebbero a farci attraversare l’uscio della porta; soprattutto i giovani che, più che a “freddi” numeri, sono sensibili alle emozioni. Quand’è che un numero diventa emozione? Quando scuote la nostra vita, passando come freccia dalla testa al cuore. Succede così che a scendere in piazza è insieme a quei volti la paura che il caos ambientale espresso dai vari dati possa distruggere il proprio posto nel mondo, un timore viscerale a cui il filosofo Glenn Albrecht ha dato un nome: solastalgia. L’australiano classe 1953, interessato alle condizioni psicoterratiche (cioè alla relazione tra ecosistema e salute umana) suggerì il neologismo nel 2003. L’uomo, divenuto agente geologico rilevante, è passato da costruttore di ombrelli a costruttore della natura (o meglio distruttore). Ma quale ombrello riparerà la natura dall’uomo? E quale l’uomo dai danni da lui stesso arrecati alla sua casa? Sono quesiti che hanno un impatto profondo sulla nostra psiche.

UNA NUOVA PAROLA PER UN NUOVO MONDO. Come scrive Albrecht sul “The Conversation”, tutto ebbe inizio dopo aver esaminato l’impatto dell’estrazione del carbone a cielo aperto nella contea di Upper Hunter nel Nuovo Galles del Sud: «Dagli anni ‘80 in poi, sotto gli effetti combinati delle miniere di carbone, dell’inquinamento delle centrali elettriche e della siccità persistente, la popolazione dell’Upper Hunter soffriva di una forma di sofferenza cronica». Gli alberi morivano, gli uccelli non cantavano, i giardini non fiorivano e gli abitanti di quelle zone si sentivano irrequieti, come se non riconoscessero più il luogo in cui vivevano. «Mi sono reso conto che non c’era un concetto in lingua inglese che descrivesse adeguatamente lo stato angosciato degli abitanti dell’Upper Hunter». Si trattava di una forma di nostalgia che non poteva essere definita tale perché «queste persone vivevano ancora nel luogo che chiamavano casa», ma angosciati come se fossero stati estirpati dalla loro terra, come se questa gli fosse stata rubata. Dal latino solacium che significa conforto più il suffisso –algia che indica un dolore, «Solastalgia, in poche parole, è “la nostalgia di casa che hai quando sei ancora a casa”». È uno stato sempre più diffuso di ansia e depressione legato alla consapevolezza di aver perso il controllo sul proprio ambiente. È lo stesso timore che sembra affliggere i sopravvissuti a uragani, gli scienziati che studiano la scomparsa della Grande barriera corallina australiana o, come scrive Albrecht sul suo sito, gli abitanti di isole del Pacifico che si preparano a dire addio alla loro patria per l’innalzamento del livello delle acque, quelli di paesi dell’Himalaya come il Bhutan che sperimentano inondazioni terribili a causa dello scioglimento dei laghi glaciali e gli Innuit dell’Artico che, scossi da eventi climatici estremi, qualificano il loro ambiente come uggianaqtuq, una parola fortemente evocativa che indica un «amico che agisce in modo strano». Il paesaggio in cui viviamo è diventato infatti per il filosofo ambientale il «nuovo anormale».

Glen Albrecht

STARE CONNESSI. «Tale imprevedibilità del sistema renderà inutili molte delle istituzioni e metodologie create per gestire il rischio nei nostri sistemi economici. L’istituzione assicurativa, per esempio, sarà una delle prime a fallire poiché l’analisi attuariale non riesce a far fronte ai sistemi non lineari», avverte Albrecht, che è molto critico nei confronti dell’élite politica. Tuttavia la solastalgia può e deve spingerci a reagire. Le manifestazioni come quelle del global strike for future sono il primo passo verso un cambiamento radicale e necessario degli stili di vita che vanno ripensati nell’ottica della cooperazione fra tutte le specie. Io sostengo – sancisce in un altro articolo – che la prossima era nella storia umana dovrebbe essere il Symbiocene». La natura ci mostra non solo che diversi organismi vivono in simbiosi tra loro nel reciproco vantaggio ma che tutto il mondo vegetale è in stretta connessione come si trattasse di grandi reti: «il cosiddetto “wood-wide-web” è ora un primo esempio di giustizia naturale e il tentativo di mantenere “l’equilibrio” o l’omeostasi totale nella natura». Secondo il filosofo la tendenza a preservare il mutuo sostegno è più forte della lotta darwiniana. «La cooperazione e l’aiuto reciproco possono ora essere ripristinati come fondamento evolutivo della vita e cruciale per tutti gli aspetti dell’impresa umana». È una lezione che ci viene dalla natura, siamo disposti a darle ascolto?

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Laureata in "Scienze Filosofiche" presso l'Università di Catania. Giornalista pubblicista, collabora col Sicilian Post dal 2018, curando la rubrica "Il filo di sofia" e occupandosi di tematiche legate alla cultura e all'ambiente.

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